È insensato e ipocrita arrestare o accusare i Palestinesi
di promuovere l’ideologia ‘Dal fiume al mare’, mentre in Israele le
mappe scolastiche non mostrano la Linea Verde e il governo avanza il
progetto dell’annessione totale.
Il vicepresidente del parlamento israeliano Nissim Vaturi ha chiesto anche la distruzione di Jenin, avvertendo che presto la città sarà trasformata in Gaza.
L’esercito israeliano ha ampliato la sua offensiva ‘Muro
di Ferro’ nel nord della Cisgiordania, inviando carri armati a Jenin per
la prima volta in due decenni e annunciando che i residenti sfollati di
Jenin e Tulkarem non potranno tornare alle loro case.
La scorsa settimana, la Knesset ha approvato,
in una fase preliminare di votazione, un disegno di legge che intende
eliminare le organizzazioni della società civile e dei diritti umani che
sono critiche nei confronti del Governo, se queste organizzazioni
operano con il finanziamento di governi e organizzazioni straniere.
L’idea è quella di tagliare queste fonti di finanziamento.
Israele ha sfollato con la forza la comunità
di Wad al-Abyad (East al-Maniyah) nel distretto di Betlemme - la 21a
comunità sfollata dal 7 ottobre 2023
18 febbraio 2025
Venerdì 14 febbraio 2025, alle due del mattino, decine di coloni sono scesi sulla comunità di Wad al-Abeyd, situata su terre appartenenti al villaggio di al-Maniyah. I 54 membri della comunità appartengono a cinque famiglie estese e vivevano in diversi gruppi. I coloni distrussero il recinto del bestiame di Ya’qub Shalalda e minacciarono di danneggiarlo se non se ne fosse andato. I coloni hanno poi camminato intorno alle tende, urlando e minacciando i residenti fino alle 6 del mattino, a quel punto sono partiti in direzione di un avamposto stabilito a circa 300 metri dalla casa di Shalalda.
La storia d’amore di Nael Barghouti, il prigioniero
palestinese di più lunga data, e di sua moglie Iman, è un
classico del folclore palestinese. Ora, mentre Iman attende il rilascio
del suo amato dalla prigione, Israele continua a cercare di separarli.
Aman Nafi’, moglie di Nael Barghouti, regge una foto del marito imprigionato, nella sua casa del villaggio di Kobar, vicino a Ramallah. (Foto: Zena al-Tahhan)
Sono cresciuto in un villaggio chiamato Kobar. È noto per molte cose, alcune divertenti e persino sarcastiche – come lo sposo che si spaventò e scappò la notte del suo matrimonio. Ma una cosa di cui tutti eravamo orgogliosi era che il nostro villaggio aveva molti combattenti per la libertà. La maggior parte di loro era dietro le sbarre, ma conoscevamo le loro storie a memoria, anche se alcuni erano stati arrestati nei primi anni ’90, prima ancora che noi nascessimo. Abbiamo imparato a conoscerli dai nostri genitori, dai nonni, dagli amici a scuola, in pratica in ogni contesto sociale.
Tra loro, Nael e Fakhri al-Barghouti si sono distinti maggiormente. Erano cugini, entrambi accusati e condannati a oltre 80 anni nelle carceri dell’occupazione israeliana.
Una storia che mia madre mi ha raccontato in tenera età, e che mi è rimasta impressa da allora, riguarda la madre di Nael al-Barghouti.
“Era una donna forte, impavida e resistente; mashallah [grazie a Dio]. Due dei suoi figli furono imprigionati, Nael e Omar (Abu Asef)”, diceva mia madre prima di continuare la storia. “E non perdeva mai l’occasione di far loro visita quando le era permesso. Come sempre, gli ufficiali di occupazione della prigione mettevano in difficoltà le famiglie, ma lei non ha mai permesso loro di spezzare il suo spirito”.
Durante una di queste visite, un soldato chiamò il suo nome, distorcendolo in modo che suonasse come un insulto. Il suo nome era Farha, che significa “gioia” in arabo, ma lui l’ha deliberatamente pronunciato male come “Farkha”, che significa “gallina”.
Farha si è alzata, lo ha guardato negli occhi e ha detto: “Mi hai chiamato gallina? Grazie a Dio ho fatto nascere dei galli che ti caveranno gli occhi”.
Questa storia circola ancora nel villaggio come testimonianza della sua forza. “Una madre con una tale resilienza non poteva che dare alla luce combattenti come Nael e Omar”, dice la gente.
Omar “Abu Asef” Barghouti (in piedi) e Nael Barghouti (seduto) nella prigione di Askalan, 2004. (Foto gentilmente concessa dall’autore)
Nel 2011, dopo 34 anni di detenzione nelle carceri israeliane, Nael fu rilasciato in uno scambio di prigionieri. L’intero villaggio festeggiò. La maggior parte di noi non lo aveva mai visto prima, poiché era stato imprigionato prima che noi nascessimo. Quel giorno, dopo una lunga celebrazione, la folla che era venuta dall’esterno del villaggio iniziò ad andarsene. Finalmente ebbi l’opportunità vedere Nael da vicino; era intervistato da un canale di notizie israeliano. All’epoca era nei suoi 50 anni, ma nonostante avesse trascorso 34 anni dietro le sbarre, non dimenticherò mai l’energia che irradiava, quella di un uomo rinato per combattere. “Finché l’occupazione continuerà, noi continueremo a lottare”, ha detto al giornalista. Poi, in ebraico, ha detto una cosa prima di passare nuovamente all’arabo: “Conosco la vostra lingua. L’ho imparata in prigione. Ma voglio parlare nella mia lingua”. Per settimane, è stato sulla bocca di tutti in Palestina e nel villaggio.
Si diffusero voci su come, mentre era in prigione, Nael si fosse innamorato di una donna che non aveva mai incontrato. Aveva ascoltato la voce di lei alla radio, mentre difendeva i prigionieri palestinesi, si batteva per i loro diritti e visitava le loro famiglie, compresi i genitori di Nael. Lei stessa era stata imprigionata per 10 anni. Si chiamava Iman. Quando Nael fu liberato nel 2011, nel villaggio si accese un dibattito. Alcuni sostenevano che la sua famiglia gli stesse facendo pressioni affinché sposasse una donna che potesse dargli dei figli, perché Iman non poteva. La maggior parte delle persone era d’accordo: avrebbe dovuto sposare una persona che gli avrebbe dato dei figli. Ma altri sostenevano che si trattava di una vera storia d’amore e che Nael non si sarebbe mai rimangiato la parola data. Meno di un mese dopo, Nael sposò Iman. Tutta la Palestina festeggiò. Il giorno del loro matrimonio, Nael si presentò davanti alla folla e disse:
“Come prigioniero liberato, considero il mio matrimonio con un’altra prigioniera liberata una vittoria contro la prigione, una sfida a coloro che ci hanno privato della libertà e un trionfo dello spirito di fede e di speranza. Questa occasione di gioia è solo il primo passo per aprire la porta della vita che ci aspetta. Ci hanno negato la libertà, ma non hanno ucciso la nostra determinazione a rompere le catene. Ora, posso dire che io e Iman intraprenderemo un nuovo viaggio, poiché stiamo per creare un’altra famiglia tra le altre in questa grande nazione. Preghiamo Dio affinché completi la nostra felicità e gioia e guarisca le nostre ferite che hanno sanguinato per troppi anni, lasciando ricordi profondi che vivranno con noi per sempre. Ma questi ricordi serviranno anche come lezioni che rafforzeranno la nostra determinazione a continuare la nostra marcia per la libertà”. Nael e Iman si trasferirono nella loro casa sul lato orientale del villaggio, su una collina che dominava le terre circostanti. Quasi ogni giorno, Nael andava per i campi, riconoscendo gli ulivi che aveva curato da ragazzo prima del suo arresto, alcuni dei quali aveva piantato lui stesso e che ora davano frutti.
Dopo il 7 ottobre
la grande prigione che era la Cisgiordania si è frammentata in tante
piccole celle: villaggi dove non ci si può muovere. Sul territorio
palestinese occupato ci sono 798 checkpoint. Nel 93 c’erano 150mila
coloni, oggi sono 700mila. Ogni giorno manifestano la loro furia e
disumanità
Quando dici Luisa Morgantini pensi alla Palestina, alla resistenza non violenta contro l’occupazione. Pensi ad un impegno di una vita, all’esperienza delle “donne in nero”, al dialogo dal basso tra l’Israele pacifista, esiste ancora, e le organizzazioni della società civile palestinese. Un impegno che Luisa ha fatto vivere nella sua esperienza a Strasburgo, è stata vicepresidente del Parlamento europeo, e nella fondazione di Assopace Palestina. Quella che leggerete è una testimonianza diretta, dal “fronte”, che Luisa sta vivendo mettendosi, come sempre, in gioco e rischiando in prima persona, come è accaduto di recente a Hebron, dove è stata fermata dall’esercito israeliano.
Luisa Morgantini, una vita con la Palestina nel cuore. Cosa significa oggi vivere nel “Regno dell’apartheid” in Cisgiordania?
I palestinesi camminano verso nord lungo al-Rashid Road per tornare a ciò che resta delle loro case nel nord di Gaza,
il 27 gennaio. Yousef Zaanoun ActiveStills
Marina Catucci
New York - "Il manifesto" 5 febbraio
Alla fine del suo incontro con il leader israeliano Benjamin Netanyahu, Donald Trump ha proposto che gli Stati Uniti assumano una “posizione di proprietà a lungo termine” su Gaza, spianandola e trasferendo i residenti in un “pezzo di terra buono, fresco e bello”, che purtroppo però si trova in un (generico) altro Paese, in modo da sviluppare il territorio devastato dalla guerra sotto il controllo degli Stati Uniti. Un’idea che regala la visione dello spostamento di massa del popolo palestinese, visione che probabilmente infiammerà gli animi in tutto il mondo arabo.
La proposta di Trump in pratica è quella di rimuovere definitivamente i 2,2 milioni di residenti di Gaza dal territorio palestinese, e di riallocarli fuori dalla loro terra, trascinando gli Usa ancora più profondamente nel conflitto, prendendo il controllo del territorio che appartiene ai palestinesi.
La Striscia di Gaza, ha detto Trump, è un “simbolo di morte e distruzione” da molti decenni, e un posto “sfortunato”, che non dovrebbe “attraversare un processo di ricostruzione e occupazione da parte delle stesse persone che hanno vissuto un’esistenza miserabile lì”.
Il 25 gennaio non solo le quattro soldate israeliane rapite da Hamas sono tornate a casa, ma tutto Israele è tornato in se stesso, al suo amor proprio, all’unità ingannevole, alle false celebrazioni di vittoria, alla percezione di superiorità, all’ultranazionalismo e all’istigazione alla violenza. La gioia di familiari e amici è diventata un carnevale nazionale esagerato.