08 dicembre 2025

INIZIATIVE IN SOLIDARIETA' CON IL POPOLO PALESTINESE

                                 

                                        







                       








01 dicembre 2025

Palestina. La caricatura della pace

di GIUSEPPE SAVAGNONE

È quasi scomparsa dalle prime pagine dei giornali e dai notiziari televisivi italiani la tragedia della Palestina. E anche l’opinione pubblica – che aveva espresso la sua indignazione con manifestazioni di un’imponenza mai vista da molti anni – sembra essersela ormai lasciata alle spalle. Effetto dell’entrata in vigore del piano di pace con cui Donald Trump ha mancato per un pelo il premio Nobel e ha comunque ricevuto un incondizionato plauso internazionale, fino ad essere paragonato a Ciro il Grande, «strumento di Dio» nella liberazione degli ebrei.
Tutto è bene quel che finisce bene

Le scene trionfali della firma del trattato, a Sharm el-Sheikh, al cospetto di più di venti presidenti e primi ministri di tutta l’Europa e dei paesi arabi, hanno assunto agli occhi del mondo il significato di una felice conclusione del dramma umanitario che aveva sempre più inquietato le coscienze e messo in difficoltà i Governi.

Anche la grande maggioranza degli opinionisti, che aveva tenacemente difeso il diritto di Israele di difendersi, cominciava ad essere a disagio, di fronte agli scenari di massacri e devastazioni trasmessi ogni giorno in diretta (a costo spesso della loro vita) dai giornalisti palestinesi. Anche loro perciò hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, inneggiando al piano di pace come alla giusta soluzione che chiudeva finalmente la questione, dando a ciascuno ciò che gli spettava.

A confermare questa percezione è venuta l’approvazione, da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il 17 novembre scorso, della risoluzione che, sulla linea del piano Trump, affida per due anni al presidente americano il controllo della Striscia attraverso un organismo, il «Consiglio di pace», i cui membri saranno scelti direttamente dallo stesso presidente.

Il merito che è stato unanimemente attribuito al presidente degli Stati Uniti è stato quello di aver finalmente messo fine a uno spargimento di sangue che durava da due anni. Molti hanno parlato di un miracolo, di cui Trump sarebbe stato l’autore con la sua proposta di pace che nessuno fino ad allora aveva provato a fare.

Qualche perplessità controcorrente

In questo clima di beatificazione del Tychoon, quasi nessuno si è azzardato a far notare che questo primato dipendeva dal fatto che il massacro in corso a Gaza era sostenuto, politicamente e militarmente, dagli Stati Uniti e che perciò solo il presidente americano era in grado di fermare Netanyahu. Cosicché sarebbe stato legittimo, se mai, chiedersi perché lo avesse fatto solo ora, a prezzo della vita di migliaia di innocenti.

Così come nessuno o quasi si è posto il problema della consistenza di una pace siglata sulla testa di un popolo rigorosamente escluso dalle trattative, anche nella sua rappresentanza legittima, quell’Autorità Nazionale Palestinese che da tempo riconosce lo Stato ebraico (senza esserne ricambiata).

Perché – come ci si è ricordati invece davanti all’analogo piano di pace americano per l’Ucraina – non basta, per una vera pace, che essa faccia cessare la guerra, ma è necessario che sia giusta.

Per questo motivo gli stessi Governi e gli stessi giornalisti che avevano salutato con entusiasmo la fine delle stragi a Gaza senza porsi altre domande, hanno invece ritenuto irricevibile l’ultima proposta di Trump, sia perché non rispettosa del popolo ucraino, sia perché non concordata con i suoi legittimi rappresentanti. Confermando ancora una volta il doppio standard della diplomazia occidentale, e in particolare di quella europea, nei confronti di questi due conflitti.

Un’illusione ottica

Resta il fatto che la crisi di Gaza è data ormai per risolta, anche se resta qualche pendenza da risolvere nella cosiddetta «fase due», e l’attenzione del mondo si concentra adesso esclusivamente su quella ucraina.

In realtà, siamo davanti a una di quelle illusioni ottiche che l’apparato mediatico, al servizio di precisi interessi politici, è capace di generare a livello pubblico. Anche se alcune voci isolate si sono levate per smascherarla. Come quella Lorenzo Kamel, professore di Storia Internazionale all’Università di Torino e adjunct professor alla Luiss School of Government che, dopo la risoluzione dell’ONU, ha parlato di «un grande giorno per Netanyahu, Hamas e Trump», e di «un brutto giorno per la sicurezza a lungo termine dello Stato di Israele, per l’autodeterminazione palestinese e più in generale anche per le tante persone perbene che ci sono nel nostro mondo».

Perché è vero che con questa pretesa pace i morti innocenti sono molto diminuiti. Ma questo è stato pagato con la discesa del sipario sulle condizioni disastrose di un popolo di più di due milioni di gazawi le cui case, i cui ospedali, le cui moschee sono stati sistematicamente rasi al suolo dall’esercito israeliano e che continua a dipendere dall’arbitrio mutevole dei suoi oppressori per quanto riguarda l’apertura o meno dei valichi attraverso cui dovrebbero arrivare i rifornimenti di viveri.

Per due anni sono stati trattati come un gregge di bestie da Israele, che li ha deportati da un luogo all’altro a suo piacimento, sradicandoli dai luoghi dove vivevano e privandoli di ogni punto di riferimento. Ora sono abbandonati, ancora come bestie, nello spaventoso non-luogo a cui Gaza è stata ridotta.

La tragedia è ora ulteriormente accentuata dalle condizioni atmosferiche e dalle alluvioni. Uomini, donne, bambini guazzano nel fango, sotto tendoni improvvisati, alla ricerca di qualcosa da mangiare, nella speranza che Netanyahu decida di riaprire i valichi. E l’inverno si avvicina sempre di più.

Di tutto questo nessuno risponde. Un giornalista italiano che si è azzardato a chiedere in una conferenza stampa se Israele non debba risarcire i danni causati in questi due anni è stato licenziato dall’agenzia di stampa per cui lavorava. Ciò che è accaduto in questi due anni, di cui il disastro attuale è il risultato, viene ormai cancellato, rimosso. Il radioso futuro aperto con la pace maschera il disastro del presente.

Ma in realtà anche il futuro è estremamente incerto. Per colpa di Hamas, che rifiuta di consegnare le armi, ma anche perché la prospettiva del famoso Stato palestinese, a cui sia il piano Trump che la risoluzione dell’ONU accennano in modo molto vago e ipotetico, è irremovibilmente esclusa dal governo israeliano, che precisa di non essere disposto, su questo punto, a cedere a nessuna pressione. Come ha chiarito recentemente Netanyahu: «La nostra opposizione a uno Stato palestinese in qualsiasi territorio non è cambiata. Gaza verrà smobilitata e Hamas disarmata, nel modo più facile o nel modo più difficile. Non ho bisogno di rinforzi, tweet o prediche da nessuno».

E il comportamento dell’esercito israeliano, in queste settimane di «pace», rimane quello di un’occupazione militare e conferma uno stile di violenza sistematica verso un popolo che non viene trattato come un possibile partner, ma come un vinto a cui non è riconosciuta alcuna dignità umana.

Il silenzio sulla Cisgiordania

A rendere ulteriormente problematico il miraggio del futuro Stato palestinese è la situazione nella West Bank, quella Cisgiordania che secondo la risoluzione dell’ONU del 1947 dovrebbe costituire insieme a Gaza il territorio di quello Stato.

20 novembre 2025

LA PACE ........................ISRAELIANA

 

Immagine satellitare dei lavori di costruzione dell’IDF a est di Gaza City, all’inizio di questo mese. PLANET LABS PBC/Reuters

"Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, l’IDF ha distrutto oltre 1.500 edifici nelle zone di Gaza controllate da Israele"

Un’analisi condotta da BBC Verify mostra che i quartieri situati oltre la Linea Gialla sono stati distrutti dalle forze dell’IDF, in un’azione che secondo alcuni potrebbe costituire una violazione del cessate il fuoco negoziato da Trump tra Israele e Hamas.

Secondo un rapporto della BBC, dall’entrata in vigore del cessate il fuoco con Hamas, Israele ha distrutto oltre 1.500 edifici nelle zone della Striscia di Gaza controllate da Israele.

Il rapporto, basato su immagini satellitari risalenti all’8 novembre di quest’anno, mostra interi quartieri che sono stati demoliti dal 10 ottobre, quando le forze dell’IDF si sono ritirate sulla Linea Gialla.

Il numero di edifici distrutti potrebbe essere significativamente superiore a 1.500, secondo BBC Verify, che ha affermato che alcune aree sotto il controllo dell’IDF non potevano essere facilmente ispezionate.

Secondo l’analisi effettuata dalla BBC, molti edifici distrutti dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco sembravano essere intatti prima del cessate il fuoco.

Una delle zone citate dal rapporto è quella orientale di Khan Yunis, nella città di Abasan al-Kabira, dove le immagini satellitari dall’ottobre 2023 fino al cessate il fuoco mostravano edifici in piedi con danni minimi o nulli, che da allora sono stati rasi al suolo.

https://www.assopacepalestina.org/2025/11/12/dallentrata-in-vigore-del-cessate-il-fuoco-lidf-ha-distrutto-oltre-1-500-edifici-nelle-zone-di-gaza-controllate-da-israele/

"Il parlamento israeliano approva in prima lettura la legge sulla pena di morte per “terrorismo”"

I critici sostengono che, nella pratica, la pena di morte verrebbe applicata quasi esclusivamente ai palestinesi che uccidono ebrei, e non agli estremisti ebrei che compiono attacchi contro i palestinesi.

Il parlamento israeliano ha approvato in prima lettura un disegno di legge che introdurrebbe la pena di morte per “terrorismo”.

L’emendamento al codice penale, proposto dal ministro della Sicurezza Nazionale di estrema destra Itamar Ben-Gvir, è stato approvato lunedì con 39 voti a favore e 16 contrari nella Knesset, composta da 120 membri, segnalando che ha il sostegno del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Secondo il testo della bozza, la pena di morte si applicherebbe alle persone che uccidono israeliani per motivi “razzisti” e “con l’obiettivo di danneggiare lo stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua terra”, ha riferito il Times of Israel.

I critici hanno affermato che, in pratica, la formulazione significa che la pena di morte si applicherebbe quasi esclusivamente ai palestinesi che uccidono ebrei, e non agli ebrei integralisti che compiono attacchi contro i palestinesi.

In una dichiarazione, Amnesty International ha condannato questa evoluzione.

https://www.assopacepalestina.org/2025/11/11/il-parlamento-israeliano-approva-in-prima-lettura-la-legge-sulla-pena-di-morte-per-terrorismo/

"Ben Gvir, arrestare Abu Mazen se Onu vota ok a Palestina"

17 novembre  (Keystone-ATS) 

l ministro israeliano di estrema destra Itamar Ben-Gvir ha chiesto oggi l'arresto del presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas) e l'assassinio di alti funzionari palestinesi qualora il Consiglio di Sicurezza dell'Onu votasse a favore dello Stato palestinese.
“Se accelerano il riconoscimento di questo Stato fabbricato, se l’Onu lo riconosce, voi (…) dovete ordinare omicidi mirati di alti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese, che sono terroristi sotto ogni aspetto (e) ordinare l’arresto di Abu Mazen”, ha detto il ministro della Pubblica sicurezza Ben-Gvir ai giornalisti, rivolgendosi direttamente al premier israeliano Benjamin Netanyahu.


Giovani ragazze palestinesi giocano in un nuovo campo profughi allestito dal Comitato egiziano a Nuseirat, nella Striscia di Gaza, l’11 novembre 2025 [Eyad Baba/AFP]

Gli aiuti sono ancora tristemente insufficienti rispetto alle necessità di Gaza, mentre si avvicinano piogge intense e l’inverno

L’UNRWA critica aspramente Israele per aver ostacolato gli sforzi umanitari a Gaza. Nonostante il cessate il fuoco che impone il passaggio degli aiuti, Israele ha consentito l’ingresso solo di una minima parte di quelli necessari alla popolazione.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA) ha accusato Israele di ostacolare deliberatamente le sue operazioni e di bloccare l’ingresso di aiuti vitali a Gaza nel corso della sua guerra genocida durata più di due anni, mentre i palestinesi affrontano l’arrivo di piogge intense e dell’inverno con scarsi ripari o soccorsi.

“La salvaguardia del mandato e delle operazioni dell’UNRWA è richiesta dal diritto internazionale; è vitale per la sopravvivenza di milioni di palestinesi ed è essenziale per una soluzione politica”, ha dichiarato giovedì il commissario generale dell’UNRWA Philippe Lazzarini alla Quarta Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, citando le recenti conclusioni della Commissione d’Inchiesta delle Nazioni Unite e le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) che obbligano Israele a revocare le restrizioni imposte all’Agenzia.

Lazzarini ha anche dichiarato in una conferenza stampa presso la sede delle Nazioni Unite a New York che gravi carenze di finanziamenti stanno minacciando i servizi essenziali dell’UNRWA, esortando i paesi donatori a fornire più fondi, in modo che l’agenzia possa continuare le sue operazioni a Gaza nonostante i tagli ai finanziamenti da parte degli Stati Uniti

Video. Il preside di una scuola di Tel Aviv descrive come Israele insegni letteralmente a odiare ai bambini.



Ahmad Mousa Al-Mash’ala accanto a un furgone incendiato dai coloni israeliani durante un incendio doloso nel villaggio di Jaba, in Cisgiordania, il 18 novembre 2025. (Oren Ziv)

“Il fuoco ha divorato tutto”: i coloni israeliani scatenano un’ondata di attacchi incendiari

Almeno cinque villaggi della Cisgiordania sono stati presi di mira dai coloni che hanno dato fuoco a case, automobili e a una moschea palestinese, mentre l’esercito ha ritardato l’arrivo dei mezzi di soccorso.

Lunedì sera, poco dopo che le autorità israeliane avevano effettuato una rara evacuazione di un avamposto illegale di coloni, decine di coloni hanno preso d’assalto il confine orientale di Jaba, un villaggio palestinese vicino a Betlemme, nella Cisgiordania occupata. Sono arrivati in auto, poi si sono sparpagliati a piedi in gruppi coordinati, incendiando proprietà e spruzzando graffiti con scritte come “Morte agli arabi”, “Vendetta” e “Un ebreo non sfratta un ebreo” – quest’ultima probabilmente in riferimento all’evacuazione e ai recenti arresti di coloni da parte della polizia.

L’attacco è durato solo pochi minuti, ma i danni sono stati ingenti: otto auto bruciate o distrutte e sette case vandalizzate, molte delle quali incendiate.

https://www.assopacepalestina.org/2025/11/19/il-fuoco-ha-divorato-tutto-i-coloni-israeliani-scatenano-unondata-di-attacchi-incendiari/

"L’Onu ha abbandonato Gaza. Vince la legge del più forte"

  Eliana Riva 19 novembre 


Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha scelto di abbandonare Gaza ai progetti e agli umori del presidente Usa Donald Trump e alla sua squadra di affaristi e costruttori. Un voto che rappresenta una capitolazione, che riconosce il fallimento stesso dell’organismo internazionale, appaltandone i doveri al governo più forte, armato e aggressivo.

La Risoluzione 2803, votata nella tarda serata di lunedì 17 novembre, sancisce l’ingresso dell’Onu in una logica di delega politica ed esecutiva al presidente statunitense, che ottiene una legittimazione formale alla gestione della Striscia di Gaza.

NEL SUO PRIMO POST social pubblicato dopo l’approvazione, Trump ha ringraziato tutti per avergli riconosciuto i poteri di cui si era già dotato nel suo piano a 20 punti: «Congratulazioni al mondo per l’incredibile voto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, solo pochi istanti fa, riconoscendo e approvando il CONSIGLIO DI PACE, che sarà presieduto da me, e comprende i leader più potenti e rispettati in tutto il mondo». Anche chi siano questi leader lo deciderà Trump.

Il «Consiglio di pace» è una sorta di club esclusivo. Tony Blair dovrebbe essere il luogotenente del «Board of peace», che sovraintenderà la Forza internazionale di stabilizzazione (Isf) ma anche il comitato tecnocratico palestinese e pure la polizia che verrà modellata.

UNO DEI PUNTI PIÙ CONTROVERSI della Risoluzione riguarda proprio poteri, mezzi e obiettivi dell’Isf, immaginata con lo scopo di disarmare Hamas, distruggere le sue infrastrutture e proteggere popolazione e confini. Non si sa quali siano i Paesi che vi prenderanno parte.



L'aeroporto Ramon, nel deserto presso Eilat

"Via da Gaza, deportazioni mascherate da evacuazioni"


 Widad Tamimi 18 novembre 

Mentre in Italia ci affanniamo a salvarne una manciata, a portare i gazawi fuori da un inferno che non lascia alternative – perché nessuno crede più che ci sia futuro, anche se si cominciasse domani a ricostruire ci vorrebbero anni – emergono, accanto ai canali umanitari legittimi, zone grigie sempre più ampie. Tra questi, il nome che ricorre con maggiore insistenza è quello di Al-Majd Europe, una fondazione registrata in Germania che negli ultimi mesi è diventata protagonista di un’operazione di evacuazione tanto vasta quanto controversa. Ne ha scritto domenica su queste pagine Michele Giorgio

09 novembre 2025

INIZIATIVE IN SOLIDARIETA' CON IL POPOLO PALESTINESE













                                  

                


23 ottobre 2025

Personalità ebraiche di tutto il mondo chiedono all’ONU e ai leader mondiali di sanzionare Israele

 

Wallace Shawn, Ilana Glazer e Jonathan Glazer.Composizione: Getty Images

di Joseph Gedeon,  The Guardian, 22 ottobre 2025.  

Esclusivo: in una lettera aperta, ex funzionari, artisti e intellettuali israeliani affermano che le azioni “inaccettabili” messe in atto a Gaza equivalgono a un genocidio.


Personalità ebraiche di spicco di tutto il mondo chiedono alle Nazioni Unite e ai leader mondiali di imporre sanzioni a Israele per quelle che definiscono azioni “inaccettabili” che equivalgono a un genocidio a Gaza.

Oltre 450 firmatari, tra cui ex funzionari israeliani, vincitori di Oscar, autori e intellettuali, hanno firmato una lettera aperta in cui chiedono che Israele risponda delle sue azioni a Gaza, nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est. La lettera è stata pubblicata mentre i leader dell’UE stanno per riunirsi giovedì a Bruxelles; si dice che intendano accantonare le proposte di sanzioni per le violazioni dei diritti umani.

“Non abbiamo dimenticato che molte delle leggi, delle carte e delle convenzioni stabilite per salvaguardare e proteggere tutta la vita umana sono state create in risposta all’Olocausto”, scrivono i firmatari. “Queste garanzie sono state violate senza sosta da Israele”.

Tra i firmatari figurano l’ex presidente della Knesset israeliana Avraham Burg, l’ex negoziatore di pace israeliano Daniel Levy, lo scrittore britannico Michael Rosen, la scrittrice canadese Naomi Klein, il regista premio Oscar Jonathan Glazer, l’attore statunitense Wallace Shawn, le vincitrici dell’Emmy Ilana Glazer e Hannah Einbinder e il vincitore del premio Pulitzer Benjamin Moser.

I firmatari esortano i leader mondiali a sostenere le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) e della Corte Penale Internazionale (ICC), a evitare la complicità nelle violazioni del diritto internazionale interrompendo i trasferimenti di armi e imponendo sanzioni mirate, a garantire un adeguato aiuto umanitario a Gaza e a respingere le false accuse di antisemitismo contro coloro che sostengono la pace e la giustizia.

“Chiniamo il capo con immenso dolore mentre si accumulano le prove che le azioni di Israele saranno giudicate conformi alla definizione giuridica di genocidio”, si legge nella lettera.

L’appello fa seguito a un netto cambiamento nell’opinione pubblica degli ebrei statunitensi e dell’elettorato in generale negli ultimi anni. Un sondaggio del Washington Post ha rilevato che il 61% degli ebrei statunitensi ritiene che Israele abbia commesso crimini di guerra a Gaza e il 39% afferma che sta commettendo un genocidio. Tra il pubblico americano in generale, il 45% ha dichiarato alla Brookings Institution di ritenere che Israele stia commettendo un genocidio, mentre un sondaggio Quinnipiac condotto ad agosto ha rilevato che metà degli elettori statunitensi condivide questa opinione, tra cui il 77% dei democratici.

10 ottobre 2025

Un’alternativa decolonizzata al piano di pace Trump per Gaza

Il fumo sale sopra la Striscia di Gaza dopo un bombardamento israeliano, il 7 ottobre 2025, visto dal sud di Israele [Amir Levy/Getty Images]

 di Jeffrey Sachs e Sybil FaresAl Jazeera, 8 ottobre 2025.  

Solo un piano decolonizzato incentrato sulla sovranità palestinese può portare una pace duratura a Gaza.

Il piano di pace in 20 punti per Gaza del presidente degli Stati Uniti Donald Trump offre alcune proposte costruttive sugli ostaggi, gli aiuti umanitari e la ricostruzione. Tuttavia, è viziato da un inconfondibile quadro coloniale: Gaza sarebbe supervisionata dallo stesso Trump, con l’ex primo ministro britannico Tony Blair e altri outsider nel ruolo di amministratori fiduciari del governo palestinese, mentre la creazione di uno stato palestinese sarebbe rinviata a tempo indeterminato.

Questa logica non è nuova. Ripete l’approccio anglo-americano alla Palestina che dura da un secolo, a partire dal Trattato di Versailles del 1919, quando il Regno Unito acquisì il mandato sulla Palestina, e poi con i successivi interventi diretti e indiretti degli Stati Uniti nella regione dal 1945 in poi.

Un vero piano di pace deve eliminare l’impalcatura coloniale. Deve ripristinare la sovranità palestinese affrontando la questione centrale: la statualità palestinese. Il piano deve rafforzare l’Autorità Palestinese (AP) stabilendo che essa detiene il governo fin dall’inizio, che la pianificazione economica è esclusivamente nelle mani palestinesi, che nessun “viceré” esterno interviene e che viene fissato un calendario chiaro e breve per il ritiro israeliano e la piena sovranità palestinese entro l’inizio del 2026.

Quella che segue è un’alternativa veramente decolonizzata, un piano che si basa su questi principi. Mantiene gli elementi pratici della proposta di Trump, ma ne elimina le basi coloniali. Mette i palestinesi, e non i “tutori” stranieri, al centro del governo e della ricostruzione. Fondamentalmente, è in linea con il diritto internazionale, compresa la sentenza del 2024 della Corte Internazionale di Giustizia, la recente risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) e il riconoscimento della Palestina da parte di 157 paesi in tutto il mondo.

Questo piano rivisto conserva gli elementi fondamentali di Trump relativi al rilascio degli ostaggi, alla fine dei combattimenti, al ritiro dell’esercito israeliano, agli aiuti umanitari di emergenza e alla ricostruzione della Palestina devastata dalla guerra, eliminando al contempo il linguaggio e il bagaglio coloniale. I lettori possono confrontare questa versione punto per punto con il piano originale di Trump disponibile qui.

Trump riuscirà a impedire a Netanyahu di riprendere la guerra a Gaza dopo il rilascio degli ostaggi?

 di Raviv DruckerHaaretz, 8 ottobre 2025.  

Fin dall’inizio, questo è stato un accordo asimmetrico. Ciò che viene chiesto ad Hamas – rilasciare gli ostaggi – è concreto e irreversibile. Al contrario, la contropartita israeliana – porre fine alla guerra – è solo una promessa che potrebbe svanire da un momento all’altro.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (a sinistra) arrivano per una conferenza stampa nella State Dining Room della Casa Bianca a Washington, DC, il 29 settembre 2025. Andrew Caballero-Reynolds/AFP

Se tutti gli ostaggi venissero effettivamente liberati nei prossimi giorni, sarebbe un risultato significativo per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Rappresenterebbe la cosa più vicina a una resa da parte di Hamas, poiché l’organizzazione rimarrebbe senza la sua principale carta negoziale. Dopotutto, Netanyahu potrebbe riprendere la guerra una volta liberati gli ostaggi, cosa che sembra intenzionato a fare.

L’accordo di porre fine alla guerra in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi è sul tavolo fin dal primo giorno di guerra.

È stato ancora più centrale nella seconda fase dell’ultimo accordo sugli ostaggi a gennaio. È giusto sostenere che Netanyahu avrebbe dovuto concludere prima un accordo simile. Resta comunque il fatto che l’accordo attuale è un grande risultato per lui.

Fin dall’inizio, questo è stato un accordo asimmetrico. Ciò che viene chiesto ad Hamas – liberare gli ostaggi – è concreto e irreversibile. Al contrario, la contropartita israeliana – porre fine alla guerra – è solo una promessa che potrebbe svanire da un momento all’altro.

Questo è già successo in passato. Netanyahu ha rifiutato di porre fine alla guerra decine di volte, arrivando persino a rifiutare cinicamente di negoziare la seconda fase dell’accordo precedente a gennaio.

Hamas comprende i rischi dell’accordo proposto. Chi fermerà Israele se Netanyahu troverà un pretesto per riprendere la guerra dopo il rilascio degli ostaggi? Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump? Il Qatar?

30 settembre 2025

ROMPIAMO L’ASSEDIO DI GAZA con la Global Sumud Flotilla

L’Italia invii le tre portaerei italiane “Cavour”, “Garibaldi” e “Trieste” per soccorrere la popolazione palestinese
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la Risoluzione 60/1 del 16 settembre 2005, ha stabilito che 
          ogni singolo Stato ha la responsabilità di proteggere la sua popolazione da genocidi, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini                                            contro l’umanità. 

Ha statuito altresì che se uno Stato non è in grado di farlo o non si assume manifestamente la responsabilità di proteggere la popolazione da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l'umanità, ma li compie deliberatamente, 

la Comunità internazionale, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite, il Diritto internazionale dei diritti umani e il Diritto internazionale umanitario, ha la responsabilità di utilizzare adeguati mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi pacifici, per proteggere la popolazione da tali crimini.

 Il Consiglio di sicurezza può anche 

intraprendere in modo tempestivo e deciso azioni collettive se i mezzi pacifici dovessero rivelarsi inadeguati e le autorità nazionali manifestamente non si assumessero in maniera chiara la protezione delle loro popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l'umanità.


Di fronte al comportamento criminale dello Stato di Israele nella Striscia di Gaza e all’inerzia, che si traduce in complicità, degli Stati membri dell’Unione europea, la società civile europea ha il diritto dovere di ingerenza negli affari interni dello Stato di Israele per somministrare viveri, medicinali e servizi di prima necessità alla popolazione palestinese.

La “Responsabilità di Proteggere” non prevede e non tollera il doppio standard che contraddistingue il comportamento di gran parte dei governi europei in carica. La legge è uguale per tutti, è scritto nelle aule dei tribunali e ce lo insegnano a scuola.

L’azione della Global Sumud Flotilla volta a rompere l’assedio a Gaza, come fecero i Beati i costruttori di pace con la missione a Sarajevo nel dicembre del 1992 per far cessare uno dei più sanguinosi conflitti della fine del '900, è dunque doverosa e legittima ai sensi della Carta delle Nazioni e del Diritto internazionale dei diritti umani.

La Global Sumud Flotilla sta facendo quello che dovrebbero fare gli Stati europei sotto l’autorità delle Nazioni Unite: salvare il popolo palestinese e chiedere l’arresto dei criminali per i quali è stato emesso un mandato di cattura internazionale dalla Corte Penale Internazionale.

Chiedere, come stanno facendo alcuni governi europei, alla Global Sumud Flotilla di rinunciare alla sua missione pacifica, nonviolenta e disarmata, senza nemmeno nominare chi sono i criminali, è un ulteriore gesto di insopportabile ipocrisia e di grave complicità con i crimini che si stanno perpetrando nella Striscia di Gaza.

In virtù del principio della “Responsabilità di Proteggere”, la Global Sumud Flotilla sta realizzando una grande “Operazione di Salvataggio” dei bambini, delle bambine e di tutti i sopravviventi di Gaza. Ogni ora che passa, alcuni di loro saranno ammazzati, feriti, seviziati! E la colpa è anche di quei governi che non stanno facendo nulla per salvarli. Chi non agisce è complice!

Il governo italiano faccia partire subito le tre portaerei italiane “Cavour”, “Garibaldi” e “Trieste” cariche di aiuti. La Presidente del Consiglio e il Ministro degli Esteri salgano su quelle navi, dirigano le operazioni di soccorso e chiedano a tutti i Capi di Stato europei e del resto del mondo di fare altrettanto. Il genocidio e l’assedio di Gaza devono essere fermati!

NB. Il mare davanti alla Striscia di Gaza non è il mare di Israele. Quel mare è parte dei “Territori Palestinesi” occupati illegalmente dallo Stato di Israele. Il blocco armato di quella striscia di mare da parte di Israele è un atto illegale che non può essere tollerato.

Flavio Lotti, Presidente Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace
Marco Mascia, Presidente Centro Diritti Umani “Antonio Papisca” – Università di Padova

Perugia, Padova 29 settembre 2025

18 settembre 2025

La guerra delle parole di Israele per giustificare le violenze e le devastazioni

Ieri il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha pubblicato sui suoi social un video che mostra una torre bombardata nella Striscia di Gaza, e la didascalia: «la torre del terrore al Ghafri si schianta in mare. Stiamo soffocando i focolai di terrorismo». Il giorno prima aveva pubblicato un video che mostra la distruzione dell’Università Islamica a Gaza City, la cui didascalia recita: eliminare le fonti di incitamento e terrorismo.

di FRANCESCA MANNOCCHI

Mentre l’esercito israeliano si prepara a un’occupazione su vasta scala di Gaza City, intensificando le operazioni nel cuore urbano della Striscia, distruggendo torri residenziali e sedi universitarie che fungevano da rifugio per gli sfollati, emerge con sempre maggiore chiarezza che anche il linguaggio usato dal governo israeliano è un tassello dell’arsenale.

Un linguaggio che non si limita, cioè, ad accompagnare l’avanzata militare ma la precede, ne costruisce la narrazione, ne plasma la legittimità e ne previene il dissenso, un linguaggio che è dispositivo della guerra in grado di tradurre un’invasione annunciata in una misura difensiva, e la distruzione sistematica di un’intera città in un’operazione chirurgica di “sicurezza”.

Un linguaggio per cui ogni crimine è nascosto dietro la retorica della guerra al terrore.

Sempre due giorni fa, sempre il ministro della Difesa Katz, pubblicando il video dell’ennesimo palazzo residenziale disintegrato dalle bombe israeliane, aveva scritto: «House of cards. The skyline of Gaza is changing». Il profilo urbano di Gaza, ci dice Katz, sta cambiando.

Un messaggio (all’opinione pubblica interna e agli alleati) che va oltre la retorica bellica: Gaza non è più una città, ma un obiettivo da demolire, non più spazio urbano abitato, ma materiale da spianare.

Quella che Katz chiama «trasformazione» è in realtà l’annientamento di Gaza City e il cambiamento dello «skyline» è la distruzione della sua identità.

«House of cards. The skyline of Gaza is changing» è una frase che sintetizza la brutalità della strategia militare, un lessico che non è un sottoprodotto della violenza, una sua conseguenza, al contrario è essa stessa azione bellica, non accidentale ma sofisticata, pervasiva.

Precede l’attacco, lo legittima e lo spettacolarizza.

07 agosto 2025

Sono di Gaza, dove la tenacia non muore

Testimonianza «Sono un’architetta che non costruisce più nulla se non la memoria che rischia di essere cancellata, l’architetta condannata a scrivere nella polvere della sua casa diventata cenere»

Alia Shamlakh

Una ragazza palestinese ispeziona la devastazione causata da un attacco israeliano – foto Abed Rahim Khatib/Ap   

Dall’apocalisse di Gaza, in presenza di una lunga morte, in un Paese dove la vita è diventata un atto quotidiano di sopravvivenza, vi scrivo la mia testimonianza sanguinante – io, Alia Shamlakh. L’architetta che non costruisce più nulla se non la memoria che rischia di essere cancellata, l’architetta condannata a vivere tra le mappe distrutte e a scrivere nella polvere della sua casa diventata cenere. Eppure, io continuo a stare sopra le macerie e a cercare di portare a termine la mia missione, anche se tutto intorno a me distoglie lo sguardo. Scrivo la mia testimonianza con la speranza che sia un grido udibile di fronte a un mondo che è diventato sordo al crimine.
HO 37 ANNI, di cui due trascorsi nel cuore del massacro. Nei giorni del genocidio e della feroce carestia. Due anni di spostamenti ripetuti e continui, di tentativi di sopravvivenza, di danze sul filo del rasoio tra la vita e la morte. Qui la sopravvivenza è un evento eccezionale, non perché sappiamo come sopravvivere, ma perché schiviamo la morte per caso, è una questione di pochi minuti o di coincidenza. La nostra casa è stata bombardata mentre eravamo dentro. Noi, i nostri figli e i iei genitori anziani. Non siamo stati feriti, nessuno è morto in quel momento, ma la morte ci ha circondato e accompagnato, in tutti i luoghi che pensavamo «sicuri». Ci siamo rifugiati in un ospedale per sicurezza, ma abbiamo scoperto che ci stavamo rifugiando in una trappola. Piovevano proiettili ed eravamo intrappolati con centinaia di sfollati, affamati, assetati, terrorizzati. Le pareti tremavano, dal soffitto si respirava fumo, i nostri cuori morivano ogni volta e non venivano seppelliti.

Siamo fuggiti a sud di Gaza, a casa di un parente a Khan Younis, poi siamo fuggiti di nuovo all’estremo sud, a Rafah, poi a Deir al-Balah e poi di nuovo, speriamo per l’ultima volta, a Gaza City. Qui, all’inferno, non c’è spazio per pianificare. Bisogna improvvisare, tanto anche le aree «di sopravvivenza» vengono bombardate. Ricominciamo ogni volta, non perché siamo «forti», come alcuni amano dire, ma perché fermarsi è un lusso che non possiamo concederci. Stiamo solo salvando i nostri figli dall’orrore del momento, in attesa dell’orrore successivo.

IN 20 MESI di sfollamento e di fuga dalla morte, abbiamo costruito temporaneamente la nostra vita in una tenda. Una piccola tenda sulla strada che a malapena riesce a contenere il nostro respiro, figuriamoci tredici corpi. Nessuna sicurezza. Nessuna privacy. Nessun bene essenziale per vivere. Nel nostro sfollamento i nostri figli hanno dormito sulle piastrelle, sulla terra, all’aperto. Hanno sofferto la fame.

ABBIAMO STIPENDI e soldi, ma non servono a nulla quando non c’è più nulla. Stiamo ancora vivendo una carestia feroce che ci ha fatto rimpiangere quel poco cibo in scatola che potevamo trovare qualche mese fa. I nostri corpi si sono indeboliti, il peso è sceso, la memoria si è offuscata, la concentrazione si è affievolita. Tutti noi abbiamo contratto epatiti, malattie della pelle, infezioni e la nostra psiche è danneggiata come se ci stessimo lentamente consumando fino a esaurirci.

TUTTO NELLA NOSTRA VITA è tornato a un livello primitivo. Cuciniamo con la legna da ardere. Facciamo il bagno ai nostri figli con l’acqua che portiamo da lontano e che riscaldiamo sul fuoco. Facciamo lunghe code per un litro d’acqua. Viaggiamo su carri distrutti, logori, a volte trainati da animali. Sopravvivo per continuare a lavorare. Sì, anche se non sarei nelle condizioni, vado a lavorare perché la missione che ho scelto, o che ha scelto me, non può essere abbandonata. Lavoro per un’organizzazione internazionale per persone con disabilità, cerco di rimanere al lavoro per proteggere l’essere umano, fatto a pezzi davanti ai nostri occhi. Mi chiedo ogni giorno come possa una persona a cui è stato tolto il diritto al riparo, all’acqua e alla dignità, continuare a difendere i diritti degli altri. E ogni volta mi rispondo: vengo da Gaza, da un luogo dove la tenacia non muore, anche se diventa una maledizione. Una maledizione perché stiamo cercando di salvare il salvabile dei nostri diritti, vivendo in una realtà che non rispecchia alcun documento o convenzione sui diritti.

SIAMO STATI DELUSI DAL MONDO INTERO, non per un motivo complicato, ma perché sceglie di non vedere. Non stiamo morendo in segreto. Tutto è documentato, proprio davanti agli occhi di tutti. Convenzioni, leggi, diritti umani? Foglie al vento o combustibile per il fuoco. Il mondo ha dichiarato la morte della propria coscienza in un freddo silenzio. Ormai ridiamo con nera ironia quando il mondo parla di «dignità umana» e «sicurezza dei civili».

Netanyahu ordina all’esercito israeliano di conquistare tutta Gaza

I media israeliani riportano che Benjamin Netanyahu ha ordinato all’esercito di espandere la sua offensiva a Gaza e di rioccupare l’intera Striscia

Esercito israeliano di stanza al confine di Gaza, 10 marzo 2024. (Foto: © Abir Sultan/EFE via ZUMA Press/APA Images)


















di Qassam Muaddi   Mondoweiss, 4 Agosto 2025   

Il gabinetto di guerra israeliano si è riunito lunedì per decidere la prossima fase della guerra di Israele contro Gaza. Secondo quanto riferito, l’incontro doveva scegliere tra la fine della guerra a favore dei colloqui per il cessate il fuoco o l’espansione per rioccupare l’intera Striscia. Secondo le prime notizie non confermate, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha informato “giornalisti amici” di aver ordinato all’esercito israeliano di “conquistare Gaza” di fronte all’opposizione del capo di stato maggiore dell’esercito, Eyal Zamir. Secondo quanto riferito, l’ufficio di Netanyahu ha detto a N12: “La decisione è stata presa: Israele conquisterà la Striscia di Gaza”.

Il cessate il fuoco è stato sostenuto da ufficiali dell’esercito israeliano, mentre la decisione di rioccupare Gaza è favorita dai ministri della linea dura come il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir e il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che sono alleati chiave nella coalizione di estrema destra del primo ministro Netanyahu, e sono accreditati di aver svolto un ruolo influente nel sostenere l’assalto israeliano in corso.

Secondo la radio dell’esercito israeliano lunedì, Zamir aveva chiesto “chiarezza” al governo israeliano riguardo al futuro dello sforzo bellico, secondo quanto riferito, scoraggiando la rioccupazione di Gaza, credendo che avrebbe “prosciugato” l’esercito israeliano.

Mentre l’operazione “Carri di Gedeone” si conclude, i negoziati per il cessate il fuoco sono incentrati sulla carestia

Il messaggio di Zamir al gabinetto è arrivato nel bel mezzo dell’annuncio di Israele, la scorsa settimana, della fine della sua ultima offensiva militare a Gaza, soprannominata Operazione “Carri di Gedeone”, mentre uno dei membri del gabinetto israeliano, Zeev Elkin, ha minacciato di “annettere parti di Gaza” come “strumento di pressione” contro Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco.

Il messaggio è stato emesso anche in seguito alla visita dell’inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente Steve Witkoff in Israele e Gaza la scorsa settimana. Venerdì, Witkoff ha incontrato le famiglie dei prigionieri israeliani a Tel Aviv, dove ha riaffermato gli sforzi degli Stati Uniti per raggiungere un accordo di cessate il fuoco, senza fornire alcun dettaglio sul progresso dei colloqui. Witkoff ha detto che Hamas stava considerando di rinunciare alle sue armi, mentre il gruppo di resistenza ha risposto in una dichiarazione dicendo che avrebbe deposto le armi solo dopo la creazione di uno Stato Palestinese indipendente.

Prima di andare a Tel Aviv, Witkoff ha trascorso cinque ore in uno dei centri della controversa Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta dagli Stati Uniti e da Israele. Dopo la sua visita a uno dei siti del GHF, ha detto che ci sono difficoltà e penuria, ma “nessuna fame” a Gaza. Lunedì, un gruppo di 17 organizzazioni internazionali per i diritti umani ha risposto alle affermazioni di Witkoff in una dichiarazione congiunta, affermando che l’inviato degli Stati Uniti aveva “totalmente ignorato i fatti sul terreno”, che “le prove non possono essere cancellate con delle semplici dichiarazioni” e che “la fame a Gaza è reale e ha già causato la morte di 159 persone, tra cui 90 bambini, che è un numero documentato che riflette la dimensione di un crimine ingiustificabile e innegabile”.

La scorsa settimana, Israele ha presentato le sue obiezioni alla risposta di Hamas all’ultima proposta di cessate il fuoco di Witkoff. Le obiezioni di Israele includevano gli emendamenti di Hamas alle mappe del ritiro militare israeliano, in particolare insistendo sul mantenimento della presenza militare israeliana nel Corridoio Philadelphi – l’area militarizzata a cavallo del confine israelo-palestinese – e sul principio dello scambio dei corpi dei prigionieri israeliani uccisi con prigionieri palestinesi vivi. Tuttavia, gli Stati Uniti non hanno presentato una nuova versione della proposta di cessate il fuoco.

Durante la visita di Witkoff, l’ala armata di Hamas ha diffuso il video di un prigioniero israeliano emaciato che soffre di fame e grave malnutrizione, che ha detto nel video di non aver mangiato per diversi giorni. Il video ha scatenato le proteste delle famiglie dei prigionieri israeliani e ha spinto Netanyahu a commentare il video in una dichiarazione televisiva, dicendo che Hamas stava “cercando di spezzarci”.

Domenica, il gabinetto di Netanyahu ha dichiarato di aver chiesto al Comitato Internazionale della Croce Rossa di garantire l’ingresso di cibo ai prigionieri israeliani. Hamas ha risposto dicendo che avrebbe “cooperato positivamente” con la Croce Rossa a condizione che fosse istituito un corridoio umanitario permanente per Gaza e che gli aerei militari israeliani cessassero di sorvolare la Striscia durante l’ingresso degli aiuti. Lo stesso giorno, Hamas ha dichiarato che sarebbe stata “pronta a impegnarsi di nuovo nei colloqui quando la fame finirà”, sottintendendo che la fine della fame è la nuova condizione del movimento di resistenza per il ritorno ai colloqui.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina


21 luglio 2025

Dichiarazione Congiunta del Gruppo dell’Aia sulla conclusione della Conferenza di Emergenza sulla Palestina alla Conferenza di Bogotá

 19 luglio 2025.  

Si è tenuta a Bogotá, Repubblica di Colombia, dal 15 al 16 luglio 2025, la Conferenza di Emergenza sulla Palestina convocata dal Gruppo dell’Aia.

Riportiamo di seguito la Dichiarazione Congiunta emersa dalla Conferenza

Dichiarazione congiunta al termine della
conferenza di emergenza sulla Palestina

Convocata dal Gruppo dell'Aia

Noi, rappresentanti di Bolivia, Cuba, Colombia, Indonesia, Iraq, Libia, Malesia, Namibia, Nicaragua, Oman, Saint Vincent e Grenadine, Sudafrica e tutti gli altri Stati* che sottoscrivono quanto segue entro il 20 settembre 2025,


Guidati dagli scopi e dai principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e dal diritto 
internazionale compreso il diritto inalienabile dei popoli all'autodeterminazione e il principio dell'inammissibilità dell'acquisizione di territori con la forza;

Riuniti con urgenza a Bogotà, Colombia, dal 15 al 16 luglio 2025 con l'obiettivo di rafforzare la nostra determinazione collettiva creando una voce internazionale unitaria e adempiendo ai nostri obblighi internazionali in relazione alla situazione nei Territori Palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est;

Piangendo ogni vita persa nel corso delle azioni genocidarie di Israele nei Territori Palestinesi occupati; 

Deplorando l'ostruzione degli aiuti umanitari e la violenza deliberata e indiscriminata e le punizioni collettive inflitte alla popolazione affamata della Striscia di Gaza; 

Deplorando i ripetuti sfollamenti forzati di massa della popolazione civile palestinese e l'ostacolo al suo ritorno; 

Riconoscendo il rischio che le azioni di Israele comportano per le prospettive di pace e sicurezza nella regione, nonché per l'integrità del diritto internazionale in generale; 

Rifiutando di rimanere osservatori passivi della devastazione nei Territori Palestinesi occupati e della negazione del diritto inalienabile del popolo palestinese all'autodeterminazione; 

Riaffermando il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024 sulle conseguenze derivanti dalle politiche e dalle pratiche illegali di Israele, che, per loro stessa natura, sono motivo di preoccupazione per tutti gli Stati; 

Ricordando tutte le risoluzioni pertinenti delle Nazioni Unite, compresa la risoluzione A/RES/ES-10/24 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e gli obblighi assunti dagli Stati membri di adottare misure in linea con il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024, il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto umanitario;