01 dicembre 2025

Palestina. La caricatura della pace

di GIUSEPPE SAVAGNONE

È quasi scomparsa dalle prime pagine dei giornali e dai notiziari televisivi italiani la tragedia della Palestina. E anche l’opinione pubblica – che aveva espresso la sua indignazione con manifestazioni di un’imponenza mai vista da molti anni – sembra essersela ormai lasciata alle spalle. Effetto dell’entrata in vigore del piano di pace con cui Donald Trump ha mancato per un pelo il premio Nobel e ha comunque ricevuto un incondizionato plauso internazionale, fino ad essere paragonato a Ciro il Grande, «strumento di Dio» nella liberazione degli ebrei.
Tutto è bene quel che finisce bene

Le scene trionfali della firma del trattato, a Sharm el-Sheikh, al cospetto di più di venti presidenti e primi ministri di tutta l’Europa e dei paesi arabi, hanno assunto agli occhi del mondo il significato di una felice conclusione del dramma umanitario che aveva sempre più inquietato le coscienze e messo in difficoltà i Governi.

Anche la grande maggioranza degli opinionisti, che aveva tenacemente difeso il diritto di Israele di difendersi, cominciava ad essere a disagio, di fronte agli scenari di massacri e devastazioni trasmessi ogni giorno in diretta (a costo spesso della loro vita) dai giornalisti palestinesi. Anche loro perciò hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, inneggiando al piano di pace come alla giusta soluzione che chiudeva finalmente la questione, dando a ciascuno ciò che gli spettava.

A confermare questa percezione è venuta l’approvazione, da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il 17 novembre scorso, della risoluzione che, sulla linea del piano Trump, affida per due anni al presidente americano il controllo della Striscia attraverso un organismo, il «Consiglio di pace», i cui membri saranno scelti direttamente dallo stesso presidente.

Il merito che è stato unanimemente attribuito al presidente degli Stati Uniti è stato quello di aver finalmente messo fine a uno spargimento di sangue che durava da due anni. Molti hanno parlato di un miracolo, di cui Trump sarebbe stato l’autore con la sua proposta di pace che nessuno fino ad allora aveva provato a fare.

Qualche perplessità controcorrente

In questo clima di beatificazione del Tychoon, quasi nessuno si è azzardato a far notare che questo primato dipendeva dal fatto che il massacro in corso a Gaza era sostenuto, politicamente e militarmente, dagli Stati Uniti e che perciò solo il presidente americano era in grado di fermare Netanyahu. Cosicché sarebbe stato legittimo, se mai, chiedersi perché lo avesse fatto solo ora, a prezzo della vita di migliaia di innocenti.

Così come nessuno o quasi si è posto il problema della consistenza di una pace siglata sulla testa di un popolo rigorosamente escluso dalle trattative, anche nella sua rappresentanza legittima, quell’Autorità Nazionale Palestinese che da tempo riconosce lo Stato ebraico (senza esserne ricambiata).

Perché – come ci si è ricordati invece davanti all’analogo piano di pace americano per l’Ucraina – non basta, per una vera pace, che essa faccia cessare la guerra, ma è necessario che sia giusta.

Per questo motivo gli stessi Governi e gli stessi giornalisti che avevano salutato con entusiasmo la fine delle stragi a Gaza senza porsi altre domande, hanno invece ritenuto irricevibile l’ultima proposta di Trump, sia perché non rispettosa del popolo ucraino, sia perché non concordata con i suoi legittimi rappresentanti. Confermando ancora una volta il doppio standard della diplomazia occidentale, e in particolare di quella europea, nei confronti di questi due conflitti.

Un’illusione ottica

Resta il fatto che la crisi di Gaza è data ormai per risolta, anche se resta qualche pendenza da risolvere nella cosiddetta «fase due», e l’attenzione del mondo si concentra adesso esclusivamente su quella ucraina.

In realtà, siamo davanti a una di quelle illusioni ottiche che l’apparato mediatico, al servizio di precisi interessi politici, è capace di generare a livello pubblico. Anche se alcune voci isolate si sono levate per smascherarla. Come quella Lorenzo Kamel, professore di Storia Internazionale all’Università di Torino e adjunct professor alla Luiss School of Government che, dopo la risoluzione dell’ONU, ha parlato di «un grande giorno per Netanyahu, Hamas e Trump», e di «un brutto giorno per la sicurezza a lungo termine dello Stato di Israele, per l’autodeterminazione palestinese e più in generale anche per le tante persone perbene che ci sono nel nostro mondo».

Perché è vero che con questa pretesa pace i morti innocenti sono molto diminuiti. Ma questo è stato pagato con la discesa del sipario sulle condizioni disastrose di un popolo di più di due milioni di gazawi le cui case, i cui ospedali, le cui moschee sono stati sistematicamente rasi al suolo dall’esercito israeliano e che continua a dipendere dall’arbitrio mutevole dei suoi oppressori per quanto riguarda l’apertura o meno dei valichi attraverso cui dovrebbero arrivare i rifornimenti di viveri.

Per due anni sono stati trattati come un gregge di bestie da Israele, che li ha deportati da un luogo all’altro a suo piacimento, sradicandoli dai luoghi dove vivevano e privandoli di ogni punto di riferimento. Ora sono abbandonati, ancora come bestie, nello spaventoso non-luogo a cui Gaza è stata ridotta.

La tragedia è ora ulteriormente accentuata dalle condizioni atmosferiche e dalle alluvioni. Uomini, donne, bambini guazzano nel fango, sotto tendoni improvvisati, alla ricerca di qualcosa da mangiare, nella speranza che Netanyahu decida di riaprire i valichi. E l’inverno si avvicina sempre di più.

Di tutto questo nessuno risponde. Un giornalista italiano che si è azzardato a chiedere in una conferenza stampa se Israele non debba risarcire i danni causati in questi due anni è stato licenziato dall’agenzia di stampa per cui lavorava. Ciò che è accaduto in questi due anni, di cui il disastro attuale è il risultato, viene ormai cancellato, rimosso. Il radioso futuro aperto con la pace maschera il disastro del presente.

Ma in realtà anche il futuro è estremamente incerto. Per colpa di Hamas, che rifiuta di consegnare le armi, ma anche perché la prospettiva del famoso Stato palestinese, a cui sia il piano Trump che la risoluzione dell’ONU accennano in modo molto vago e ipotetico, è irremovibilmente esclusa dal governo israeliano, che precisa di non essere disposto, su questo punto, a cedere a nessuna pressione. Come ha chiarito recentemente Netanyahu: «La nostra opposizione a uno Stato palestinese in qualsiasi territorio non è cambiata. Gaza verrà smobilitata e Hamas disarmata, nel modo più facile o nel modo più difficile. Non ho bisogno di rinforzi, tweet o prediche da nessuno».

E il comportamento dell’esercito israeliano, in queste settimane di «pace», rimane quello di un’occupazione militare e conferma uno stile di violenza sistematica verso un popolo che non viene trattato come un possibile partner, ma come un vinto a cui non è riconosciuta alcuna dignità umana.

Il silenzio sulla Cisgiordania

A rendere ulteriormente problematico il miraggio del futuro Stato palestinese è la situazione nella West Bank, quella Cisgiordania che secondo la risoluzione dell’ONU del 1947 dovrebbe costituire insieme a Gaza il territorio di quello Stato.

Risale a poche settimane fa l’approvazione da parte del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, che è anche responsabile della gestione civile in Cisgiordania, di un nuovo piano di insediamento – l’ennesimo, dopo la svolta in questo senso a seguito della guerra dei sei giorni (1967) – che prevede la costruzione di 3.400 unità abitative per i coloni. La sua realizzazione, ha spiegato con soddisfazione Smotrich, «seppellirà l’idea di uno Stato palestinese».

E, coerentemente con questa logica, si sono sempre più moltiplicate in queste settimane le violenze dei coloni, che tagliano gli ulivi dei palestinesi, ne bruciano i raccolti, ne demoliscono le fattorie. Con l’appoggio dell’esercito israeliano, che ottempera così alla Legge Fondamentale del 2018, che in un suo articolo dice: «Lo Stato considera lo sviluppo dell’insediamento ebraico come un valore nazionale, e agirà per incoraggiare e promuovere il suo sviluppo e consolidamento».

Non è un caso che il piano di pace di Trump non faccia parola del destino della Cisgiordania. Con l’evidente intenzione di lasciarlo agli attuali rapporti di forza, assolutamente sbilanciati a favore degli israeliani. Anche se, per decenza, la Casa Bianca ha pressato perché venisse annullata la decisione con cui la Knesset, alla fine di luglio, ha votato a grande maggioranza una mozione che sancisce l’annessione della Cisgiordania mozione avversata anche dal premier Netanyahu – che quella annessione la vuole – perché inopportuna in questo delicato momento.

Ma è chiaro a tutti che è solo questione di tempo.

Ma è questo il bene di Israele?

Davanti al quadro che abbiamo delineato non mancherà, ancora una volta, chi griderà all’antisemitismo.

Un’accusa resa ridicola dal fatto che, oltre a un’autorevole commissione indipendente d’inchiesta dell’ONU, molte personalità ebraiche, come Anna Foa, e anche israeliane, come David Grossman, hanno denunciato con forza i crimini di Israele bollandoli chiaramente come genocidio. Essere contro la politica di Netanyahu e del suo Governo non significa avversare gli ebrei, anzi testimonia la stima e il rispetto nei loro confronti.

E del resto sono gli stessi ebrei israeliani a manifestare la loro delusione per quella politica, che alla fine sta danneggiano prima di tutto lo Stato ebraico. Sul portale dell’ebraismo italiano Pagine ebraiche, del 27 novembre scorso, c’è un articolo dal titolo: «Un quarto degli israeliani pensa di lasciare il Paese».

«L’indagine, condotta ad aprile di quest’anno», dice l’articolo, «mostra che il 26% degli ebrei e il 30% degli arabi israeliani valuta la possibilità di emigrare». E continua: «Il dato emerge dal rapporto annuale dell’Israel Democracy Institute, che fotografa uno stato d’animo diffuso (…). Le ragioni del malessere sono: l’aumento del costo della vita (…) seguito dal timore per il futuro dei figli e dalla prolungata instabilità della sicurezza nazionale». Il fenomeno riguarda soprattutto i giovani

La verità è che questa guerra, scatenata in nome di un messianismo fondamentalista che vuole rendere più sicuro Israele, ha determinato un clima di violenza e di odio senza precedenti, creando le premesse per uno strascico di vendette di cui non si può prevedere la fine. Soprattutto ne ha sfigurato il volto. A livello internazionale, ma anche agli occhi di molti ebrei della diaspora e dei suoi stessi cittadini.

E questa pace, che copre le ferite ma non vuole riconoscerle e meno che mai curarle, non ne è il superamento, ma il prolungamento permanente, a cui chi ama la pace vera non può rassegnarsi. Perché, come ha recentemente detto papa Leone in un suo discorso, «la pace ci chiede, soprattutto, di prendere posizione. Davanti alle ingiustizie, alle diseguaglianze, dove la dignità umana è calpestata, dove ai fragili è tolta la parola: prendere posizione».

Se c’è in questo momento una situazione di ingiustizia e di disuguaglianza, in cui la dignità umana è calpestata e ai fragili è tolta la parola, è quella dei palestinesi. Chiudere gli occhi su tutto questo non promuove la pace, ma la caricatura della pace.
  • Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 28 novembre 2025