18 settembre 2025

La guerra delle parole di Israele per giustificare le violenze e le devastazioni

Ieri il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha pubblicato sui suoi social un video che mostra una torre bombardata nella Striscia di Gaza, e la didascalia: «la torre del terrore al Ghafri si schianta in mare. Stiamo soffocando i focolai di terrorismo». Il giorno prima aveva pubblicato un video che mostra la distruzione dell’Università Islamica a Gaza City, la cui didascalia recita: eliminare le fonti di incitamento e terrorismo.

di FRANCESCA MANNOCCHI

Mentre l’esercito israeliano si prepara a un’occupazione su vasta scala di Gaza City, intensificando le operazioni nel cuore urbano della Striscia, distruggendo torri residenziali e sedi universitarie che fungevano da rifugio per gli sfollati, emerge con sempre maggiore chiarezza che anche il linguaggio usato dal governo israeliano è un tassello dell’arsenale.

Un linguaggio che non si limita, cioè, ad accompagnare l’avanzata militare ma la precede, ne costruisce la narrazione, ne plasma la legittimità e ne previene il dissenso, un linguaggio che è dispositivo della guerra in grado di tradurre un’invasione annunciata in una misura difensiva, e la distruzione sistematica di un’intera città in un’operazione chirurgica di “sicurezza”.

Un linguaggio per cui ogni crimine è nascosto dietro la retorica della guerra al terrore.

Sempre due giorni fa, sempre il ministro della Difesa Katz, pubblicando il video dell’ennesimo palazzo residenziale disintegrato dalle bombe israeliane, aveva scritto: «House of cards. The skyline of Gaza is changing». Il profilo urbano di Gaza, ci dice Katz, sta cambiando.

Un messaggio (all’opinione pubblica interna e agli alleati) che va oltre la retorica bellica: Gaza non è più una città, ma un obiettivo da demolire, non più spazio urbano abitato, ma materiale da spianare.

Quella che Katz chiama «trasformazione» è in realtà l’annientamento di Gaza City e il cambiamento dello «skyline» è la distruzione della sua identità.

«House of cards. The skyline of Gaza is changing» è una frase che sintetizza la brutalità della strategia militare, un lessico che non è un sottoprodotto della violenza, una sua conseguenza, al contrario è essa stessa azione bellica, non accidentale ma sofisticata, pervasiva.

Precede l’attacco, lo legittima e lo spettacolarizza.

Chi controlla le parole, controlla la realtà percepita, lo sa bene Netanyahu come lo sapevano i suoi predecessori.

Negli anni, ma con particolare spudoratezza negli ultimi 23 mesi, la politica israeliana — guidata da Benjamin Netanyahu e sostenuta da alcune delle frange più estreme del suo governo — ha operato una sistematica manipolazione linguistica con un obiettivo preciso: piegare il linguaggio per giustificare atti di occupazione, di repressione e sfollamento.

Questo uso strategico della parola, che non è neutro, rappresenta una forma sofisticata di violenza simbolica: serve cioè a ridefinire la realtà in termini accettabili per l’opinione pubblica interna ed esterna, dissimulando la portata morale e giuridica delle azioni compiute e – nel caso dell’offensiva a Gaza – cercando di mascherare i veri obiettivi della guerra, non liberare la Striscia da Hamas, ma occuparla militarmente e sfollare forzatamente i palestinesi che la abitano.

È sullo slittamento tra parole e realtà che si gioca da anni la legittimazione della condotta di Israele, uno slittamento che ha paralizzato la comunità internazionale, incapace troppo a lungo di trovare il coraggio per smascherare un inganno.

Nella narrazione israeliana dominante, da decenni, i territori palestinesi occupati sono territori “contesi”, così da delegittimare lo status giuridico dell’occupazione, le barriere di separazione sono “muri di sicurezza” per i cittadini israeliani, la detenzione senza processo diventa “arresto amministrativo” per rendere l’abuso un tecnicismo, le aggressioni dei coloni diventano incidenti per rimuovere la disparità di potere, celare la violenza unilaterale e creare l’impressione di una simmetria che, però, non esiste. La parola uccidere viene sostituita da “neutralizzare”, per disumanizzare l’avversario e rendere accettabile, persino neutro, l’uso della forza.

Per decenni questa torsione del linguaggio ha reso accettabile l’inaccettabile, trasformando la segregazione, l’annessione, gli abusi e l’uso sproporzionato della forza in necessità.

Oggi Netanyahu, che si rivolge a due pubblici diversi — quello interno, sempre più radicalizzato, e quello internazionale, sempre più scettico — modula la sua retorica in modo bifronte.

Parla internamente di «diritto storico» di «conquista biblica» mentre all’esterno, ripete gli slogan della «lotta al terrorismo», della «legittima difesa».

Ma entrambi i registri hanno lo stesso obiettivo: normalizzare l’eccezione, rendere dicibile l’indicibile e far apparire inevitabile ciò che è, in realtà, una scelta politica precisa: il controllo permanente di Gaza, la cancellazione della prospettiva di uno Stato palestinese, l’annientamento dell’autodeterminazione.

Le parole definiscono ciò che è normale, ciò che è deviante, ciò che è accettabile, ed è soprattutto in tempi di crisi che il potere accentua il controllo discorsivo, che non si limita a bombardare ma costruisce prima l’idea che ciò che sta bombardando sia il male assoluto.

Così e solo così il campo semantico si può restringere (e con lui la morale), chi muore non è più un bambino ma un danno collaterale, chi fugge non più un profugo ma un potenziale scudo umano.

Michel Foucault, filosofo della genealogia del sapere e del potere, ci ha insegnato che non c’è verità innocente, che ogni discorso è l’effetto di una relazione di potere, e che ciò che chiamiamo realtà è, spesso, una costruzione linguistica.

Questo vale anche — forse soprattutto — in tempo di guerra.

Quando Netanyahu o i portavoce dell’IDF parlano di «zona umanitaria» per riferirsi a un’area bombardata e poi destinata a ricevere migliaia di civili sfollati, stanno manipolando il linguaggio: non è una zona umanitaria, è una zona di deportazione forzata, spesso non sicura.

Quando si parla di «migrazione volontaria» da Gaza, si omette deliberatamente che i civili vengono indotti con la minaccia della morte a lasciare le proprie case. Quando si definisce ogni struttura ospedaliera come «centro operativo terroristico», si disumanizza la funzione medica per legittimare il bombardamento. In questa cornice, Gaza City è stata recentemente descritta come un «rifugio di terroristi». In realtà, è una città con oltre mezzo milione di abitanti, molti dei quali civili, donne, bambini.

Definirla solo come un «nido di Hamas» serve a costruire una narrazione in cui ogni colpo sparato è giustificato. È la teoria foucaultiana del potere: si tratta di produrre una verità, una verità che autorizzi l’abuso, che neutralizzi il dissenso e che, venendo ai nostri giorni, trasformi una campagna militare in una missione moralmente legittima.

Il linguaggio del potere agisce così: costruendo categorie morali, creando gerarchie di umanità, e distinguendo tra chi può essere ucciso e chi va protetto.

È questo il cuore del potere discorsivo. E non metterlo in discussione significa esserne complici.

in “La Stampa” del 16 settembre 2025