03 dicembre 2007

Musica oltre il muro

di Chiara Organtini (Il Manifesto, 1 dicembre)

«Quando parli di palestinesi, è un po' come parlare d'Africa: un bambino con le mosche negli occhi è l'unica cosa che la gente ha in mente.. Noi volevamo che le cose andassero diversamente, che non avessero tutti in mente solo l'immagine di un conflitto permanente e crudele, ma anche qualcosa di buono». Così racconta Oscar Pizzo, uno degli autori (assieme a Guido Barbieri e Moni Ovadia) di Al Kamandjati - Il Violinista, spettacolo-storia di uno dei tanti bambini della prima Intifada, Ramzi Aburedwan che, abbandonata la lotta con le pietre, ha proseguito una della battaglie più difficili, quella di portare la cultura e l'arte nei territori occupati, divenendo uno dei musicisti di viola più apprezzati e fondando una scuola di musica gratuita per i bambini di Ramallah, Al Kamandjati.

Com'è nata l'idea di raccontare un progetto come questo?
Bisognava raccontare finalmente una bella storia, anche se in uno dei posti più drammatici del mondo. Non è stato facile, ci abbiamo lavorato per quasi due anni: con Barbieri siamo andati in Palestina, abbiamo fatto i salti mortali per poter avere qui all'Auditorium alcuni degli allievi di Ramzi, che non potendo uscire da Ramallah e dai territori occupati, sono dovuti passare per la Giordania, compiendo un viaggio infernale e irripetibile.

C'è traccia di questa sofferenza nello spettacolo?
Moltissima. Al di là della positiva storia di Ramzi e della scuola che ormai è arrivata ad accogliere 400 bambini, lo spettacolo racconta bene questo contrasto: l'arte, la vita, che lotta tutti i giorni come in una gabbia, perché attorno c'è un muro, il Muro voluto da Israele, che isola e spegne ogni forma di vita. Jannis Kounnelis, che si è occupato della scena, ha ben sintetizzato questo concetto: sul palco ha messo dei sacchi neri pieni di vestiti e una rete piena di scarpe. Né i primi né i secondi usciranno mai.

Non a caso lo stesso Ramzi Aburedwan ha parlato di questo progetto come di una forma di resistenza...
Sì, ma non «contro», «per». La cultura è l'unica cosa che ti salva dalla morte, da ogni tipo di morte, celebrale, fisica. Il fatto di aver coinvolto Amira Hass nella scrittura del testo e Moni Ovadia, due israeliani, testimonia di una scelta «non contro».

Ci si potrebbe chiedere allora come mai la scuola di Ramzi accoglie solo bambini palestinesi, e non invece ebrei?
Questa scuola non vuole essere uno strumento pacificatore tra culture diverse o popoli in lotta. Nello spettacolo gli unici israeliani che si vedono sono soldati, sono quelli dei check point. Questa storia appartiene solo ai palestinesi e per una volta, finalmente si parla solo di loro.

E la scuola?
È uno strumento di ripresa della vita dei palestinesi attraverso l'arte, dove l'arte non c'è più, o dove non c'è la possibilità di esprimere questa arte a causa di un'occupazione dolorosa.

Allora la musica cos'è?
Come ha detto un bambino, allievo nella scuola di Al Kamandjati, «la musica è un treno» che può portarci via, lontano dalla sofferenza.

Ramzi ha tenuto molto a dire che l'associazione da lui fondata non ha scopi politici, ma come potrebbe definirsi un racconto che vuole sensibilizzare il pubblico su una questione forte come questa?
Visto in questi termini c'è un'evidente scopo politico, ma non di politica di parte.

E allora si torna alla domanda di sempre: può esserci pace?
Sì, ma solo se si tolgono gli elementi di oppressione, se non c'è più occupazione, se i carri armati israeliani non devastano più le case. Allora può esserci pace.

E c'è la storia di Ramzi...
Una storia di speranza.