11 dicembre 2007

Un muro sbrecciato nel nostro presepe


Il Comitato Salaam Ragazzi dell’Olivo di Vicenza ripropone un’idea forte per rendere vivo e attuale il presepe 2007

Il presepe tradizionale immerso in un paesaggio desertico o di montagna o delle nostre campagne. Il presepe moderno, attualizzato nella bidonville o nei sobborghi della città o nelle terre sconvolte dalla guerra. Il presepe è sempre interpretato, raccontato, cerca di esprimere con la forza delle immagini e della tradizione radicata in ciascuno di noi un messaggio.

Anche se acquista forme e significati particolari per ciascuno di noi, la nascita del bambino è sempre segno di novità, di rinnovamento, di speranza.

Di quelle attese che ciascuno di noi ha in fondo al cuore, talora molto concrete, la salute, l’affetto, il ritorno della persona cara. Ma per tutti, nella sua forma più condivisa, la speranza della pace.

La pace in famiglia e nella comunità in cui si vive, la speranza della pace del mondo nonostante la guerra, l’ingiustizia, l’odio, il muro.

Di tutti i drammi dell’umanità, il muro rappresenta forse la forma peggiore.

Più della guerra che pure porta morte e distruzione, ma ha già in sé il germe della sua fine e della ricostruzione. Più dell’ingiustizia, che nel momento il cui viene riconosciuta porta in sé la lotta per essere superata. Più dell’odio, passione che può contrapporsi ma anche andare di pari passo con l’amore.

Il muro è il gelo, la durezza, l’impossibilità di andare oltre, l’irragionevolezza di doversi scontrare con una cosa invece che con le persone. Il muro è il segnale definitivo che la speranza è morta.

Proprio nella terra in cui Gesù è nato per ravvivare la speranza “Il popolo che cambiava nelle tenebre vide una gran luce …” oggi viene costruito un muro di separazione.

Un muro alto impenetrabile tecnologico armato. Invalicabile. Non è più questione di guerra o di pace, di ingiustizia o di giustizia, di odio o di amore. Passioni, diritti e parole restano separati tra di loro. La funzione del muro sarà quella di non permettere più che la luce passi, che le persone si vedano, che dall’una e dall’altra parte restino isolate nel proprio terrore.

Quando è nato, Gesù ha trovato il suo muro, quello del silenzio e della esclusione dalla città. Erode voleva che le Scritture restassero blindate e che si uccidesse ogni bambino che potesse essere segno di speranza. Gesù ha voluto essere luce che lacerava le tenebre.

Allora la proposta – per rendere attuale e vivo quest’anno il messaggio della nascita - è che in ogni presepe in famiglia e in comunità sia presente un muro diroccato.

Sbrecciato dalla cometa, fatto crollare dalla tromba dell’angelo, stracciato come il velo del tempio, in ogni presepe vi sia un NO al muro che oggi viene costruito per separare i reciproci terrori in terra di Palestina, costruito per uccidere la speranza.

Non è soltanto un simbolo di problemi lontani da noi. Anche sulla nostra terra oggi si rischia di alzare continuamente barriere e muri di pregiudizio e di paura, incarcerando in spazi sempre più stretti anche gli stranieri che cercano pace.

Nel muro diroccato del nostro presepe ci sia invece la gioia che abbiamo provato quando sono stati abbattuti i muri del timore e della separatezza tra i popoli, che ci ha fatto commuovere quando si sono aperte le porte del ghetto o abbiamo visto smantellare il muro di Berlino.

Un presepe che sia al contempo testimonianza e servizio, di fronte al quale abbiamo il coraggio di dialogare sul muro, sui muri, sulla nostra volontà di abbatterli.

Chiusi fuori - La tua chiave per non dimenticare


Di fronte al dramma taciuto o negato della 'Nakba' subita dal popolo palestinese dal 1948, delle migliaia di profughi che portano nel cuore le immagini dei villaggi distrutti e tengono ancora in mano le chiavi della propria casa rubata

ATTIVIAMOCI PER:

APPROFONDIRE le ragioni della storia del conflitto israelo-palestinese di ieri e di oggi attraverso il video-documentario "PROPRIO COSI'. Storie di quotidiana occupazione" (richiedi il DVD a Pax Cristi. segreteria@paxchristi.it)

CONDIVIDERE la sofferenza dei rifugiati, inviando da tutta Italia le nostre chiavi che, fuse insieme, testimonieranno la nostra solidarietà in ina scultura che porteremo al campo profughi di Dheisheh (Betlemme).
Per Vicenza la raccolta delle chiavi si effettua presso la Cooperativa Sociale Insieme - via B. Dalla Scola 255 - Vicenza - ore 10-12.30 (escluso lunedì) e 15-19 di tutti i giorni, sabato compreso

Mi chiamo Mohammed e questa è la mia storia


La mia storia inizia nel mese d’ottobre, un mio nipote di secondo grado che vive in USA aveva una figlia gravemente malata, egli aveva promesso a Dio che se sua figlia fosse guarita, avrebbe donato 20.000$ alla moschea di Al-Aqsa; ad ottobre e’ venuto qui con la figlia che stava bene, e cosi si e’ rivolto a me per aiutarlo di portare i soldi alla persona giusta e onesta a favore di Al-Aqsa in quanto lui non aveva il permesso d’entrare a Gerusalemme, e cosi ho pensato di consegnare i soldi a Raed Salah, un arabo d’Israele che si occupa della manutenzione e dei lavori della moschea, non pensando che tale signore era sempre sotto il controllo della polizia israeliana. La donazione, infatti era fatta alla luce del sole.

Sabato 24 novembre ero a Ramallah con una delegazione italiana ospiti a cena del direttore e dello staff medico dello ospedale di Sheikh Zayed, sono tornato a casa verso ore 23. Alle 4 del mattino mia moglie dice che ci sono i soldati. Ho pensato che i soldati ci sono spesso nella zona dove abito, cosi le ho detto di tornare a dormire, ma mia moglie ha insistito, dicendo che sono entrati in casa. Mi sono alzato e sono andato verso la porta ( al secondo piano dove dormo io) ed ho visto tre soldati con i fucili puntati e con il muso duro. Ho chiesto loro perché avessero forzato la porta. Per tutta risposta, loro con un cenno mi hanno detto di arretrare. Ho ribadito la domanda ed ho avuto la stessa risposta, a quel punto ho chiesto - in inglese - dove fosse il loro capitano che è subito apparso. Mi ha parlato in arabo, chiedendomi se ero Mohammed. Ho detto si; mi ha chiesto la mia carta di identità e anche quella di tutte le persone presenti in casa mia.

Successivamente mi ha chiesto il numero del mio cellulare digitando i numeri per chiamarmi poi ha preso il mio cellulare mentre i soldati hanno iniziato a frugare in tutta la casa. Si sono fatti accompagnare nella mia camera da letto dove hanno iniziato a rovistare in tutti i cassetti. Rivolgendomi al capitano. ho chiesto cosa stessero cercando in modo da aiutarli e farci risparmiare tempo tutti quanti. I soldati hanno risposto che stavano cercando cose proibite. Per me proibite vuol dire armi o droga; così ho detto che nella mia casa non ci sono né armi né droga. Il capitano mi ha risposto che cose proibite vuol dire anche altre cose. Dopo dieci minuti di ispezione mi hanno detto di prepararmi e seguirli. Per me è stato un momento di sollievo perché, ad un certo punto, ho pensato che fossero venuti per i miei figli. Sono uscito da casa con loro ma ho rifiutato di essere ammanettato davanti ai miei figli e loro mi hanno ammanettato dentro la jeep militare. Prima di essere bendato e chiuso dentro la camionetta, ho contato più di quaranta soldati dentro e attorno alla mia casa.


Mi hanno portato verso una caserma militare che si trova all’entrata del mio paese[1], questo l’ho capito dal percorso della jeep. Una volta dentro sono stato visitato da un medico che parlava solo ebraico e inglese. Ho cercato di scherzare con il medico dicendo che la sua visita era gratis, quando ha finito di visitarmi mi ha chiesto di fare il traduttore mentre visitava altri tre palestinesi arrestati la stessa notte. Non li conoscevo né so da dove provengono, ho continuato a scherzare dicendo che avrebbero dovuto pagarmi per fare il traduttore. Sono rimasto ammanettato e bendato per forse dieci ore, era facile capirlo perché ho sentito il Muezzin intonare il richiamo alla preghiera di mezzo giorno e sono rimasto lì per altre due ore circa. Ad un tratto sono arrivati quattro soldati che mi hanno tolto il filo di plastica[2] attorno ai polsi e mi hanno messo le manette che usano i poliziotti.

Scortato dai poliziotti siamo partiti ancora, ho cercato di sapere dove si andava ma l’unico soldato che parlava inglese mi ha detto di stare zitto perché nemmeno lui sapeva dove stavamo andando. Dopo quasi due ore di viaggio siamo arrivati a destinazione, ho capito che si trattava di Petah Tikva[3] nei pressi di Tel Aviv. Durante il viaggio mi hanno chiesto se parlavo ebraico ho detto di no, che oltre alla lingua araba parlo inglese e italiano. Uno dei soldati mi ha chiesto, sempre in inglese che cosa ne pensavo di Ahmadi Najad[4], il presidente iraniano. Ho risposto che quello è un gioco tra Iran e USA e alla fine si metteranno d’accordo. L’Iran consegnerà il centro nucleare in cambio otterrà maggiori controlli sull’Iraq.

Una volta dentro la caserma mi hanno fatto un’altra visita medica e mi hanno fatto spogliare completamente nudo per passare attraverso il metal detector. In seguito mi hanno portato al secondo piano, dichiarato in stato di arresto per novantasei ore. A quel punto mi hanno nuovamente ammanettato e bendato gli occhi finché siamo entrati in una camera dove mi hanno tolto dagli occhi la benda: una specie di maschera subacquea ma con il vetro oscurato. Nella stanza era seduto un uomo in borghese, il capitano B. del servizio di sicurezza israeliano. Col viso sorridente mi ha chiesto se volevo del caffè, ho detto di si, fino a quel momento nessuno mi aveva ancora detto perché mi trovavo lì. Ha iniziato a chiedermi nome, cognome, data di nascita di tutta la mia famiglia e cosa fanno i miei figli. Subito dopo mi ha chiesto se conoscevo arabi israeliani. In quel momento ho capito perché mi avevano arrestato. Ho risposto che conosco due membri del parlamento israeliano: Mohammed Baraka del partito comunista, incontrato in un dibattito politico e Ahmad Teibi, incontrato quando ho lavorato per Bruno Vespa, in qualità di interprete; inoltre, ho aggiunto, conosco lo Sheikh Raed Salah. Il Capitano B mi ha detto di dimenticare i prime due e di parlare della mia relazione con lui. Gli ho raccontato la storia dei 20.000$ con tutti i dettagli: dove ho consegnato i soldi, se era da solo, se mi ha rilasciato una ricevuta. Ho spiegato che era la seconda volta che lo incontravo. La prima era stata tre o quattro mesi fa nella mosche di Al Aqsa e la seconda nel mese di ottobre. Ho raccontato la storia perché la donazione è passata tramite il conto corrente di una associazione registrata legalmente in Israele e riconosciuta dal ministero degli interni. Il capitano mi ha detto di andare a dormire al primo piano. Durante tutto l’interrogatorio sono rimasto con una mano ammanettata alla sedia.

Scendendo mi hanno risparmiato il trattamento della bendatura e mi hanno lasciato le mani libere. Il posto per dormire era un box di cemento con una porta, 2.5 metri per 2.5, senza finestre. L’aria era ventilata attraverso un sistema di aerazione, le luci sono rimaste sempre accese e il bagno era in un angolo non separato dal resto della stanza. Un lavandino, due materassi molto bassi e qualche coperta. Ero molto stanco e mi sono addormentato quasi subito.

Il giorno dopo ho ricevuto come colazione un pezzo di pomodoro, un pezzo di pane e yogurt, poi mi hanno portato nuovamente al piano superiore, ammanettato e bendato. Questa volta era presente un altro capitano, A. Mi ha fatto le stesse domande ma ho dovuto rispondere per iscritto, in arabo e firmare. È tornato il capitano B. che mi ha rifilato le stesse identiche domande cui ho dato le stesse risposte. Un terzo capitano, M. è intervenuto, poi un quarto, AK. Anche lui mi ha fatto le stesse domande, poi il capitano A mi ha chiesto cosa potessi fare per dimostrare la mia buona volontà verso di loro. Ho detto che non capivo il significato della domanda, e lui l’ha ripetuta identica. Ho ribadito con chiarezza che non sarei mai stato una loro spia, anche se avessero puntato i fucili contro la mia testa non sarei mai diventato un loro cane, ripetendo la parola cane più di una volta. I tre capitani ci sono rimasti male per la mia definizione, perché ho definito cani le spie.

Ad un certo punto ho chiesto al capitano B. se lui avesse rispetto per i cani che tradiscono il proprio popolo per i soldi. Lui ha avuto il coraggio di dire no. Hanno continuato con il discorso su Raed, cercando di scoprire altre relazioni tra me e lui ma senza successo. Ho iniziato a sentirmi più forte di loro ed ho iniziato a parlare di politica. La prima cosa che ho detto è che la mia presenza in Israele è una violazione della convenzione di Ginevra perché è proibito trasferire i cittadini dei territori occupati altrove. Ho parlato del terrorismo dicendo che per me è ogni atto compiuto da un individuo o da un gruppo ed anche da uno stato che minaccia la vita o danneggia la vita altrui fisicamente, moralmente o ostacola la libera circolazione a causa della religione, lingua e razza. Alla fine sono arrivato a dire che l’occupazione è un atto di terrorismo come anche gli insediamenti, i check point e il muro.

Loro cercavano di spostare il discorso mentre io sono riuscito a trasformare l’interrogatorio in un processo politico contro l’occupazione. Mi sentivo più forte di tutti loro. A quel punto il capitano A mi ha chiesto se ero disponibile a passare il test con la macchina della verità. Ho detto di si, così avrei potuto dimostrare quello che avevo sostenuto fino ad allora. Il giorno seguente, cioè martedì, mi hanno condotto nuovamente al secondo piano, sempre con lo stesso trattamento.

Si è presentato il signor R. che mi ha spiegato come funzionava la macchina, mi ha letto le domande prima di iniziare. Sette in tutto. Due su Raed: se ho altri rapporti di denaro con lui, e se ho altri tipi di relazione con lui. Lì per lì ho deciso di fare un gioco con il signor R. e gli ho detto di non chiedermi se avessi mai toccato armi in vita mia. Il signor R. sembrava aver trovato un tesoro perché il suo cliente voleva confessare di aver usato armi prima. Gli ho spiegato cosa intendevo: ho sparato una volta in Sardegna con un fucile da caccia, quando sono andato in montagna con lo zio della mia ragazza, la seconda volta mi sono fatto fotografare con un mitra con la polizia palestinese nel 1994 a Gerico. La verità è che ho sparato quattro volte non una. La seconda cosa che ho detto di non chiedermi è se dico bugie, perché io dico sempre le bugie a mia moglie in quanto ho tante relazioni sessuali. Anche se questo non è vero lui ha preso le due domande per metterle nel test. Prima cosa, mi ha detto, facciamo un semplice test. Mi ha chiesto se era domenica, ho detto no, poi se era lunedì, ho detto no. Allora mi ha chiesto se era martedì ma mi ha detto di rispondere di no. Il test è cominciato sembrava una scena teatrale: la macchina era composta da due anelli collegati con uno strumento a sua volta collegato con un computer. Uno strumento per misurare la pressione del sangue e due molle appoggiate al torace ed uno sullo stomaco collegati anche loro al computer. Seduto sulla sedia mi diceva di non muovermi perché il test stava per iniziare. Dopo pochi minuti ha girato il monitor per farmi vedere la risposta quando ho negato che fosse martedì. Mi ha mostrato che l’oscillazione era diversa e non regolare come le altre. Mi sono messo a ridere dicendo che il diagramma era stato preparato tanto tempo fa e che questo gioco si può fare con i bambini ma non con un uomo di quarantasei anni. Ha fatto finta di essere arrabbiato dicendo che lui è un professionista ha fatto finta di andarsene ed io non ho fatto nulla per trattenerlo poi ha ripreso da solo con il testo. Mi ha fatto le sette domande più le due che avevo suggerito

tu sei Mohammed…………Si,

2- sei musulmano………SI,

3- hai una relazione diversa con Raed…………NO,

4- hai un’altra relazione con Raed………NO,

5- abbiamo una sedia qui…………….SI,

6- abbiamo una porta qui………………..SI,

7- hai paura che ti faro domande fuori di quelli che ti avevo precisato prima……………NO

(anche se dentro di me pensavo che sicuramente mi avrebbero fatto altre domande). A quel punto mi ha fatto le due domande sulle armi e sulla mia vita sessuale, sempre con la stessa scena. Il test è stato ripetuto per più volte cambiando l’ordine delle domande.

Alla fine il capitano Ak. è arrivato dicendo che ho fallito sulla domanda che riguarda una relazione diversa con Raed, la domanda dove sono stato sincero al cento per cento!

I tre militari hanno iniziato a bombardarmi con la stessa domanda…” parla, cosa hai con Raed?”. Il test ha provato questo fatto, loro parlavano mentre io ero tranquillo sorridendo, la mia risposta era: niente di questo e’ vero, ribadendo che i fatti sono due: o la macchina è un grande fallimento, o loro mi prendono in giro. È andata avanti cosi per quasi due ore. Ho iniziato nuovamente a parlare di politica, l’importanza del processo di pace, arrivare ad una soluzione pacifica del conflitto, dicendo che Israele ha 3 scelte: due stati per due popoli con un ritiro dai territori occupati nel ‘67 Gerusalemme est inclusa; la seconda alternativa un stato tra il mare ed il fiume per due popoli e la terza un stato di aparthaid come era il Sud Africa. Ho detto che è stato Israele ha favorire la creazione di Hamas per colpire OLP, e che la pace è un interesse d’Israele non solo dei palestinesi, e che il futuro non gioca a favore d’israele, avrebbero dovuto lavorare per porre la fine del conflitto durante la presenza di Arafat, mentre adesso dovranno farlo con Hamas e Al-Fatah altrimenti in futuro sarà Al-Qaeda e sarà impossibile pensare ad una soluzione politica. Mi hanno chiesto che ne penso dei profughi, la mia risposta è stata che basterebbe avere la volontà e la soluzione si troverebbe, ad esempio, una parte dei profughi potrebbe essere trasferita a vivere al posto dei coloni. Dopo poco mi hanno spedito nel box.

Mercoledì mattina, la guardia mi ha chiamato dicendo che dovevo andare alla corte militare del carcere. Sono arrivato lì ammanettato e bendato, legato ad una catena tra i piedi. In aula mi hanno liberato dalla catene e dalla benda. Sono stato scortato da due soldati e posta davanti ad militare presentato come giudice militare e al sua assistente. A sinistra un signore in borghese che parlando in arabo mi dice che è il procuratore militare, i quale mi informa che la corte ha deciso di prolungare la mia detenzione per altri quindici giorni. Ho chiesto se la decisione era stata presa senza ascoltare me o il mio avvocato, la risposta è stata si. Solo dopo qualcuno mi ha detto che era stata incaricata della mia difesa la famosa avvocatessa israeliana Lea Tsemel. Ho saputo dopo che è stata incaricata da un gruppo di amici italiani.

Alla fine mi hanno riportato di nuovo al secondo piano per una nuova seria d’interrogazioni, di nuovo sul fallimento del test, di nuovo ho dirottato il discorso sulla politica; ribadendo che a nessun condizione sarò un loro cane. A quel punto il capitano Ak. mi ha detto che lui se intende farmi lavorare per loro lo farà perché secondo lui ogni persona ha un prezzo. Ho deciso di giocare di nuovo chiedendo: sei sicuro che ogni persona ha un prezzo indicandolo? Lui ha capito il gesto ed ha cambiato il discorso. Allora mi ha chiesto dove si trovavano le ricevute del pagamento. A casa mia, ho risposto, ma non sarà facile trovarle senza la mia presenza.

Dopo una lunga discussione hanno accettato di farmi accompagnare a casa per prendere le ricevuto. Ho accettato ma a condizione di non entrare ammanettato o bendato. Siamo saliti in macchina, mi hanno portato al check point di Qalandia, durante il viaggio hanno usato tre catene: una per le mani, una per i piedi e la terza per collegarle tra loro. Vicino Qalandia c’erano circa venti soldati che ci aspettavano. Sono sceso dalla vettura ed ho chiesto di togliermi la catena come d’accordo. I soldati non ne volevano sapere, hanno solamente sganciato la terza catena che era poi tenuta ad una estremità da un soldato. Ho deciso di non andare a casa chiedendo di portarmi indietro al carcere. L’autista della vettura si e’ rivolta verso di me e mi ha consigliato di andare con loro, altrimenti i soldati sarebbero andati a casa mia da soli e avrebbero potuto distruggere tante cose e terrorizzato la mia famiglia, cosi sono stato costretto ad andare.

Il capitano mi ha detto che avevo diritto di salutare la mia famiglia ma senza aggiungere nulla sull’interrogatorio. A casa mi hanno preceduto, i miei figli erano li. Il capitano aveva chiesto ai soldati di portare il cane, I figli pensavano si trattasi di un cane vero, che paura hanno avuto, ma lui indicava me, sono arrivato, I bambini e la moglie erano tristi, avevo paura di una reazione del mio figlio più piccolo Ali di 15 anni, I miei occhi erano sempre su lui, cercavo di tenerlo calmo, Ali secondo me era capace di alzarsi per picchiare i soldati. In quel momento ho compreso la rabbia che si trova negli occhi di tutti i bambini palestinesi.

Una volta che abbiamo preso le ricevuto siamo tornati al check point e da li verso la prigione. Il giorno dopo, giovedì, mi hanno portato alla corte di Ofer nei pressi di Ramallah perché l’ avvocatessa ha presentato un appello per il mio rilascio. Il viaggio di andata e’ stato tranquillo, mi hanno portato alla corte, dove c’era il procuratore, il giudice, un interprete di lingua ebraica ed una ragazza per stendere il verbale. Il giudice si e’ rivolto verso di me dicendo: la seduta e’ aperta mentre l’avvocato non e’ ancora arrivato. Mi ha chiesto se preferivo la sentenza subito o se volevo aspettare la domenica successive. La mia risposta è stata che non tocca a me a decidere, questi fatti vanno regolati tra giudice e avvocato, a quel punto e’ entrato l’avvocato. Mi hanno portato fuori dall’aula; ho sentito che parlavano in ebraico, dopo di che l’avvocato e’andato via, mi hanno fatto entrare ed il giudici mi ha chiesto se volevo aggiungere altre parole oltre quelle dette dall’avvocato.

Ho detto che l’ebraico che non e’ la mia lingua, non so cosa ha detto l’avvocato, il giudice ha detto che l’avvocato ha chiesto il mio rilascio. Ho detto che ero innocente e che non avevo nulla da aggiungere. Mi hanno poi portato nuovamente in carcere. Il viaggio di ritorno, è stato il momento peggiore. I soldati erano tre più un vero cane, uno lupo grosso che appena mi ha visto ha iniziato a saltare ed abbaiare. Per fortuna ho visto che la bocca del cane era chiusa, mi hanno fatto salire in macchina, e dopo di me il cane, tra me ed il cane c’era una barriera di ferro, e cosi siamo arrivati a Petah Tekva. Il soldato che guidava ha chiesto a quello che teneva il cane di farlo saltare proprio vicino a me. I soldati tutti ridevano con voce alta. Da quel giorno non ho più visto gli investigatori, mi hanno isolato in una cella fino a martedì quando mi hanno informato che potevo tornare a a casa, dopo dieci giorni; dieci giorni con sentimenti misti, rabbia, orgoglio, paura per la mia famiglia, sentirsi forte, più forte della occupazione.

Qui non posso scordare gli amici italiani, quelli che stanno a Gerusalemme o quelli che si trovino in Italia, la loro posizione, il supporto era chiaro e evidente, le parole grazie non basteranno, sarò grato per tutta la mia vita, non posso scordare quando l’avvocato mi ha detto che gli italiani si sono mobilitati tutti per seguire il mio caso, le sue parole mi hanno fatto sentire più forte.



[1] Ar_Ram, è a pochi chilometri da Gerusalemme di cui ne farebbe parte ma è separata dal muro.

[2] Le manette sono costituite da un sottile e forte filo di plastica, tipo quello che si sa per chiudere i pacchi o i cavi elettrici, se stretto forte blocca la circolazione del sangue.

[3] Questo luogo è in israele, di conseguenza Mohammed è come se fosse stato arrestato e in un altro paese, atto illegale secondo il diritto internazionale.

[4] È il grande anatema degli israeliani, ai nuovi arrivati che frequentano le Ulpam, le scuole dove si impara l’erbaico vengo ripetute delle frasi per apprendere la grammatica, una di queste dice: Ahmadi Najad è buono o cattivo? Cattivo. È la risposta della classe

04 dicembre 2007

Forse Gesù avrebbe preferito che per ricordare la sua nascita ...

... invece di passeggiare sotto la pioggia di luci di piazza dei Signori, sorridendo ad improbabili Babbo Natale, e comprare per gli amici l’ultimo luccicante oggettino made in China per cercare di sembrare originali, prestassimo attenzione alla sua meravigliosa e tormentata terra, regalandoci e regalando un buon libro che parli di essa.

Una rassegna di Letteratura palestinese si trova nel sito L’Arcilettore. Tra i libri consigliati:

I pozzi di Betlemme di Giabra Ibrahim Giabra (Jouvence Società Editoriale, Roma 1997, pp.227, € 11,00), la storia di una comunità e di una città molto prima della nascita dello Stato d’Israele. L’autore rappresenta Betlemme soprattutto nella sua tranquilla normalità nella quale convivono pacificamente mussulmani, cristiani ed ebrei.

Testimone oculare (Edizioni Lavoro 2000, pp. XIV+170, € 10,33) di Muhammad al-Qaysi. E’ la storia dello sradicamento della popolazione palestinese dai villaggi che hanno abitato per secoli e del loro spostamento da un luogo all’altro fino ad approdare in quella mostruosità che sono i campi profughi, nati con la caratteristica della temporaneità e diventati poi permanenti.

Due libri di Ghassan Kanafani, il cantore più famoso di questo periodo storico, e anche quello che ha saputo dare maggiore drammaticità al racconto della Nabka e delle sofferenze che sono derivate al popolo palestinese. Il primo è Uomini sotto il sole (ed. Sellerio, pp.96+32, € 7,00), in cui viene narrata una delle tragedie palestinesi: la necessità di emigrare per poter permettere a se stessi e alla propria famiglia di vivere. L’altro, Ritorno ad Haifa (ed. Lavoro, 2003) narra, attraverso le vicissitudini dei protagonisti, le due diaspore, quella ebraica e quella palestinese, accomunate dallo stesso tragico destino e dal sentimento straziante della perdita della propria terra.

Ben più corposo è il libro del libanese Elias Khuri, La porta del sole (trad. Elisabetta Bartuli, Einaudi, pp.485, € 19,50).
E' un romanzo complesso, piuttosto impegnativo, di non sempre facile lettura ma che traccia con sorprendente intensità la vicenda corale del popolo palestinese, dal 1948 ai nostri giorni.

sul fronte della saggistica:

Restare sulla montagna (trad. di Marilla Boffito, Nottetempo 2007, pp. 122, € 13,00). Recente imperdibile libro-intervista all'intellettuale medico e militante non violento, deputato del parlamento palestinese Mustafa Barghouthi che, dialogando a Ramallah nel 2004 con Eric Hazan, direttore della casa editrice francese La Fabrique, cerca di comprendere come si è arrivati all’attuale crisi della politica palestinese, ma soprattutto di individuare le future strategie della resistenza civile.

Anche una parte della Letteratura ebraica tratta il tema in termini di comprensione, di rispetto dei diritti umani e di pace.

Il giornalista ebreo italiano cosmopolita Eric Salerno, in Israele, la guerra dalla finestra (Editori Riuniti, pp. 190, € 10,00) racconta "dall'interno" le vicende dello stato di Israele.

Giornalista è anche l’israeliana Amira Hass, le cui lucide corrispondenze per Internazionale sono raccolte integralmente in Domani andrà peggio (Fusi orari 2005, pp. 240, € 15,00)

Tra i tanti libri di David Grossman, segnaliamo il recente Con gli occhi del nemico (Mondadori 2007, pp. 117, € 12)

Altro scrittore pacifista israeliano, autore di molti libri, è Amos Oz che, in Una terra due stati. Interviste (Datanews 2007, pp. 116, € 10,40) esprime la sua proposta per la soluzione della questione palestinese.

Infine, last but not least, sono da leggere tutti d’un fiato e da regalare i due libri di don Nandino Capovilla e Betta Tusset: Nei sandali degli ultimi. In terrasanta con Etty Hillesum e Bocchescucite. Voci dai territori occupati, che riportano testimonianze vive dalla Palestina. Sono editi e si trovano alle Ed. Paoline.

03 dicembre 2007

Musica oltre il muro

di Chiara Organtini (Il Manifesto, 1 dicembre)

«Quando parli di palestinesi, è un po' come parlare d'Africa: un bambino con le mosche negli occhi è l'unica cosa che la gente ha in mente.. Noi volevamo che le cose andassero diversamente, che non avessero tutti in mente solo l'immagine di un conflitto permanente e crudele, ma anche qualcosa di buono». Così racconta Oscar Pizzo, uno degli autori (assieme a Guido Barbieri e Moni Ovadia) di Al Kamandjati - Il Violinista, spettacolo-storia di uno dei tanti bambini della prima Intifada, Ramzi Aburedwan che, abbandonata la lotta con le pietre, ha proseguito una della battaglie più difficili, quella di portare la cultura e l'arte nei territori occupati, divenendo uno dei musicisti di viola più apprezzati e fondando una scuola di musica gratuita per i bambini di Ramallah, Al Kamandjati.

Com'è nata l'idea di raccontare un progetto come questo?
Bisognava raccontare finalmente una bella storia, anche se in uno dei posti più drammatici del mondo. Non è stato facile, ci abbiamo lavorato per quasi due anni: con Barbieri siamo andati in Palestina, abbiamo fatto i salti mortali per poter avere qui all'Auditorium alcuni degli allievi di Ramzi, che non potendo uscire da Ramallah e dai territori occupati, sono dovuti passare per la Giordania, compiendo un viaggio infernale e irripetibile.

C'è traccia di questa sofferenza nello spettacolo?
Moltissima. Al di là della positiva storia di Ramzi e della scuola che ormai è arrivata ad accogliere 400 bambini, lo spettacolo racconta bene questo contrasto: l'arte, la vita, che lotta tutti i giorni come in una gabbia, perché attorno c'è un muro, il Muro voluto da Israele, che isola e spegne ogni forma di vita. Jannis Kounnelis, che si è occupato della scena, ha ben sintetizzato questo concetto: sul palco ha messo dei sacchi neri pieni di vestiti e una rete piena di scarpe. Né i primi né i secondi usciranno mai.

Non a caso lo stesso Ramzi Aburedwan ha parlato di questo progetto come di una forma di resistenza...
Sì, ma non «contro», «per». La cultura è l'unica cosa che ti salva dalla morte, da ogni tipo di morte, celebrale, fisica. Il fatto di aver coinvolto Amira Hass nella scrittura del testo e Moni Ovadia, due israeliani, testimonia di una scelta «non contro».

Ci si potrebbe chiedere allora come mai la scuola di Ramzi accoglie solo bambini palestinesi, e non invece ebrei?
Questa scuola non vuole essere uno strumento pacificatore tra culture diverse o popoli in lotta. Nello spettacolo gli unici israeliani che si vedono sono soldati, sono quelli dei check point. Questa storia appartiene solo ai palestinesi e per una volta, finalmente si parla solo di loro.

E la scuola?
È uno strumento di ripresa della vita dei palestinesi attraverso l'arte, dove l'arte non c'è più, o dove non c'è la possibilità di esprimere questa arte a causa di un'occupazione dolorosa.

Allora la musica cos'è?
Come ha detto un bambino, allievo nella scuola di Al Kamandjati, «la musica è un treno» che può portarci via, lontano dalla sofferenza.

Ramzi ha tenuto molto a dire che l'associazione da lui fondata non ha scopi politici, ma come potrebbe definirsi un racconto che vuole sensibilizzare il pubblico su una questione forte come questa?
Visto in questi termini c'è un'evidente scopo politico, ma non di politica di parte.

E allora si torna alla domanda di sempre: può esserci pace?
Sì, ma solo se si tolgono gli elementi di oppressione, se non c'è più occupazione, se i carri armati israeliani non devastano più le case. Allora può esserci pace.

E c'è la storia di Ramzi...
Una storia di speranza.