19 ottobre 2023

CON LA PALESTINA NEL CUORE

Da anni Salaam "parla" di Territori Palestinesi Occupati e di Popolo Palestinese ma, in  questi giorni, abbiamo preferito tacere. Di fronte a tanto dolore abbiamo creduto necessario fare silenzio, anche se ciò non significa non vedere, non partecipare, non stare dalla parte degli ultimi, di chi vede negati diritti umani fondamentali da quasi 80 anni, di chi non ha futuro.

Proponiamo ora alcuni spunti di riflessione:

       POETA STRANIERO IN TERRA PROPRIA – Mahmoud Darwish

PROFUGO
Hanno incatenato la sua bocca
e legato le sue mani alla pietra dei morti.
Hanno detto: “Assassino!”,
gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere
e lo hanno gettato nella cella dei morti.
Hanno detto: “Ladro!”,
lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano.


    QUALE STATO PER IL POPOLO PALESTINESE?

CARTINA 1. possedimenti ebraici in Palestina al 1946
CARTINE 2 e 3. proposta ONU del 1947 e conquiste israeliane a seguito del conflitto
CARTINA 4. la realtà sul campo dopo gli accordi di Oslo 
Mappa della Cisgiordania di Julien Bousac, documenti dell'Ufficio di coordinamento per gli affari umanitari nei territori palestinesi occupati e da B'Tselem. Le aree della Cisgiordania in mano israeliana sono state trasformate in mare. Francia 2009

                                                  

Due articoli da "IL MANIFESTO"

Judith Butler: «Solo una democrazia radicale può porre fine alla violenza in Medio Oriente»
Giansandro Merli,  14 ottobre 2023

Un popolo di troppo. Intervista alla filosofa statunitense: «Israele è uno Stato basato su un’occupazione violenta, su espulsioni violente: ha spogliato alcune persone dei loro diritti per produrre la sua democrazia. Serve una forma di coabitazione politica tra uguali». E ancora: «Non difenderò mai Hamas. Ma voglio capire come si è arrivati fin qui: non per scagionarli, per superarli»

«Non si può dubitare del mio dolore. Ma se dovessi rimanere nella mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione che Gaza ha subito fallirei nella comprensione di un quadro più completo». Judith Butler ha un tono pacato e la voce bassa, la potenza del messaggio è nelle parole e nei gesti. Siamo all’università di Bari dove sta per ricevere, prima in Italia, il dottorato honoris causa in Gender Studies.

Nella cerimonia la filosofa statunitense, che tra i tanti libri ha pubblicato La forza della non violenza. Un vincolo etico-politico, parlerà di «immaginazione oltre la paura e la distruzione». Una lectio magistralis che non fa sconti a nessuno: dal governo italiano al regime russo, fino alla chiesa cattolica, c’è un fronte globale che ha trasformato il «gender» da strumento di analisi critica e liberazione in un «fantasma» attorno al quale catalizzare le principali paure del mondo contemporaneo. Con noi discute della situazione in Medio Oriente.

Quando un evento crea uno choc tale da rendere evidente che ci sarà un prima e un dopo – l’11 settembre 2001, l’invasione russa dell’Ucraina o il recente attacco di Hamas – pare che ognuno sia chiamato a schierarsi da una parte o dall’altra. La ricostruzione di storia e contesto è giudicata un’inutilità o perfino un tradimento. Questa sorta di presentismo è un dovere o un pericolo?
Dobbiamo condannare pubblicamente la violenza contro gli israeliani avvenuta il 7 ottobre e perpetrata da Hamas. Ma dobbiamo anche chiederci se è tutto ciò che va condannato. Siamo sconvolti che bambini, anziani e civili indifesi siano stati uccisi. Ma siamo stati sconvolti anche nei decenni in cui Israele ha bombardato case, scuole e ospedali a Gaza? Sappiamo che Israele dice: sono scudi umani, usati per proteggere installazioni militari. Ma abbiamo i numeri dei bambini morti a Gaza. Sono migliaia. Abbiamo visto persone uccise e case distrutte dai bombardamenti.

Dobbiamo chiederci perché la nostra indignazione è riservata ai civili israeliani. Io sono ebrea e quando gli ebrei vengono ammazzati il mio cuore si spezza. Quando sento che questo è stato il più grave attacco a qualsiasi gruppo di ebrei dalla seconda guerra mondiale sono sconvolta. Non si può dubitare del mio dolore. Ma se dovessi rimanere dentro la mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione che Gaza ha subito restringerei la mia visione e fallirei nella comprensione del quadro completo.

Se non vogliamo più assistere a una simile violenza dobbiamo chiederci cosa c’è bisogno di fare per eliminarla per sempre. La risposta non è lo sterminio degli abitanti di Gaza o la loro espulsione in Egitto, come pensano alcuni leader di Israele. La risposta è liberare i palestinesi dall’occupazione e trovare una forma di coabitazione politica che permetta alle persone, a tutte le persone, di vivere con uguaglianza, libertà e giustizia. Solo una soluzione di democrazia radicale può mettere fine alla violenza.
Judith Butler“Se dovessi rimanere dentro la mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione di Gaza restringerei la mia visione e fallirei nella comprensione del quadro completo”

Tracciarne la storia è un esercizio teorico o serve a trovare quella soluzione?

Dobbiamo imparare la storia di Gaza. Quando è stata costruita? Chi è stato messo lì contro la sua volontà? Dove viveva prima? Cosa sappiamo della loro espulsione e dell’occupazione? E poi: come è stata formata Hamas? Quando? Sappiamo quanti palestinesi la sostengono? Conosciamo le differenze tra l’ala politica e quella militare di Hamas? Questa non è teoria, è storia, è sociologia. È politica.

Dobbiamo conoscere tutta la vicenda, da entrambi i lati, inclusa la colonizzazione degli israeliani su quelle terre e l’espropriazione dei palestinesi mentre gli ebrei cercavano un rifugio. La conoscenza di questa storia è necessaria per avere una visione sufficientemente ampia da portare a una pace definitiva.

Cosa significa l’attacco di Hamas, con quel tipo di violenza e di progetto politico, per i movimenti della sinistra che nel mondo sostengono la causa palestinese?

La sinistra deve condannare le tattiche di Hamas. Non le difenderò mai. Ma mi interessa capire come sono arrivati lì. Condanna e comprensione storica non sono in contraddizione. Bisogna capire non per scagionarli ma per trovare un modo di superarli.

In generale i movimenti di sinistra che sostengono i palestinesi dovrebbero insistere sulla lotta non violenta. Un problema è che anche chi tra noi che appoggia il movimento per «boicottaggio, disinvestimento e sanzioni» (Bds, ndr) è chiamato terrorista.

La violenza degli oppressi è uguale a quella degli oppressori?

No, ma entrambe sono sbagliate. È chiaro che è diverso assoggettare i popoli o ribellarsi. Per esempio il New York Times definisce Hamas un’organizzazione terroristica. Loro invece si vedono coinvolti nella lotta armata contro un’occupazione. Lo Stato di Israele si sente impegnato in una legittima autodifesa. Possiamo chiederci se quell’autodifesa a volte opera come un veicolo per il furto della terra o l’imprigionamento di civili palestinesi che non costituiscono una minaccia per nessuno? Accettiamo che Hamas è coinvolta in una lotta armata come altre, come in Sud Africa per esempio? Accettiamo che Israele opera solo per autodifesa o è anche un potere militare aggressivo che cerca di mantenere i palestinesi in un assoggettamento permanente? Dobbiamo interrogarci su questi modi di descrivere la violenza.

Sono domande importanti. Spero sia possibile discuterne pubblicamente per capire meglio la situazione. Ho paura che reagiamo troppo velocemente o accettiamo il linguaggio dei media senza una comprensione critica sull’origine di quel linguaggio.

Nella rappresentazione che quel linguaggio produce, difendere Israele significa difendere la democrazia occidentale contro i barbari. È d’accordo?

No. Non ci sono dubbi che la violenza di Hamas sia orribile, ma le richieste dei palestinesi di libertà e giustizia sono un’altra cosa. È estremamente importante e legittimo il desiderio di vivere in una democrazia, con diritti politici. Non credo sia d’aiuto chiamare quelle persone «animali» o «barbari». Serve solo a darne una caricatura essenzialista e razzista.

E non credo che Israele rappresenti la migliore versione di democrazia. È uno Stato basato su un’occupazione violenta. Su espulsioni violente. Ha spogliato persone dei loro diritti per produrre la sua democrazia. Cosa significa democrazia basata sulla negazione dei diritti? Che è una democrazia per alcuni e non per tutti. Che ai non cittadini rimane una disuguaglianza radicale.

Non è la versione di democrazia che voglio difendere. Ho grandi speranze nella democrazia e spero di vederla nella regione. Ma non credo sia già successo.


Suad Amiry: «Ue e Usa ci lasciano morire. Non hanno valori»

Chiara Cruciati   - 18 ottobre 2023

Israele/Palestina Intervista alla scrittrice palestinese: 

Nel suo ultimo romanzo, Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea, Suad Amiry fa quello che fa da tanti anni: racconta, con un’ironia che è solo sua, il trauma individuale e collettivo della Nakba del 1948, la catastrofe del popolo palestinese, la cacciata dalle proprie terre dell’80% della popolazione palestinese dell’epoca, tra 800mila e un milione di persone.

Nipote di rifugiati, rifugiata lei stessa, architetta e scrittrice, Amiry è autrice di opere fondamentali della narrativa palestinese, da Murad Murad a Sharon e mia suocera.

I volantini lanciati venerdì sul nord di Gaza dall’esercito israeliano – andatevene per la vostra sicurezza, tornerete a operazione conclusa – hanno fatto subito rivivere ai palestinesi quanto avvenuto 75 anni fa. Che ruolo ha l’immaginario dell’esodo e della diaspora sulla popolazione di Gaza e su chi vive fuori?

La cosa che mi ha più addolorato è stato vedere i palestinesi del nord di Gaza lasciare le loro case, per non andare da nessuna parte. Mi ha fatto rivivere il 1948. Abbiamo sempre detto che non ci sarebbe mai stato un altro 1948, un altro abbandono delle nostre case. Ed ora lo vediamo in tv. Da bambina chiedevo sempre con rabbia ai miei genitori perché se ne fossero andati. Abbiamo sempre dato la colpa alle generazioni dei nostri genitori: perché ve ne siete andati? È un sentimento profondamente radicato. E lo riviviamo oggi: un milione di palestinesi è esattamente lo stesso numero che se ne andò nel 1948. E queste persone sono profughi del 1948. Posso capire che se ne vadano. Un mio amico mi ha detto: «Se gli israeliani mi dicono che bombarderanno la mia casa, prenderò le mie due figlie e me ne andrò, perché sono un padre e sono un essere umano». In tutte le guerre la gente scappa. Nessuno guarda alla morte e la aspetta. È un’immagine fortissima per i palestinesi perché richiama l’inizio del conflitto. Tutti oggi affrontano il conflitto come se fosse iniziato il 7 ottobre. Ma queste persone che lasciano le loro case riportano al 1948. Dopo 75 anni ci saremmo aspettati che il mondo dicesse a Israele che non si possono sradicare le persone dalle loro terre senza subire condanne.La scrittrice palestinese Suad Amiry

Gli chiedono di spostarsi a sud di Gaza, ma anche lì non ci sono rifugi sicuri.

Queste persone a cui gli israeliani chiedono di andare a sud sono originarie di città venti chilometri a nord della Striscia, Ashkelon, Ashdod. Se volete proteggerli, riportateli nelle loro case, a cui appartengono. Non chiedete all’Egitto di aprire il confine e di prenderli. Israele vuole cacciare i palestinesi e chiede ad altri Paesi di assumersi la responsabilità dei suoi atti criminali. Abbiamo bisogno di una soluzione politica. Senza porre fine all’occupazione, senza porre fine all’assedio di Gaza, senza lo stop agli insediamenti in Cisgiordania, senza fermare i coloni e le loro violenze, non ci sarà una fine. Cosa si aspettano da noi? Come possiamo resistere a tutto questo, ogni giorno, da 50 anni? Questa è la domanda che dobbiamo porci. Se non avremo una soluzione politica, vi assicuro che ci sarà un altro ciclo di ostilità. 

Lei viaggia molto, ha una casa in Italia, in questo momento è negli Stati uniti. Come legge la reazione internazionale?

Siamo lasciati a morire, non importa a nessuno. Questo è il messaggio che l’Europa e l’America ci stanno inviando. Non hanno valori. Dateci una guida su come resistere e noi la seguiremo. Ciò che mi fa arrabbiare più degli attacchi israeliani è l’animosità europea e statunitense contro i palestinesi. Il mondo assiste a bombardamenti di edifici con le persone dentro e si limita a guardare. Ora sono negli Usa: il sentimento contro i palestinesi è incredibile. In Germania cancellano la partecipazione a un festival letterario di Adania Shibli. Shibli è una scrittrice, una donna pacifica. La stessa cosa in America: c’è stato un festival letterario all’Università della Pennsylvania a cui ho partecipato, stanno chiedendo alla direttrice di dimettersi perché ha ospitato dei palestinesi. Qualsiasi cosa facciamo, veniamo criticati. Se andiamo a un festival letterario, veniamo attaccati. Se vinciamo un premio letterario, veniamo attaccati. Se a Gaza la gente si impegna in manifestazioni pacifiche per mesi, nessuno si chiede perché, nemmeno ne parla. E ora tutto il mondo è in rivolta contro di noi: non siamo uguali nella morte e non siamo uguali nella vita.

Lei ha vissuto la prima Intifada e il processo di Oslo. Né disobbedienza civile popolare né dialogo funzionarono.

Ho vissuto la prima Intifada quando Rabin faceva spezzare le ossa ai bambini perché lanciavano pietre. E ho partecipato ai negoziati per tre anni con la squadra palestinese a Washington. Ci facevano perdere tempo. Venivano nella stanza e dicevano: oggi discutiamo di come dividerci le zanzare, argomenti senza senso solo per perdere tempo. Come se noi palestinesi venissimo dalla luna. Siamo le persone che vivono in questo Paese da sempre. Qual è la nostra colpa, esattamente? Quando si vive una vita senza giustizia, senza uguaglianza, si impazzisce. Hanno passato 20 anni a negoziare con noi in modo insensato per arrivare a Oslo, che significava transizione per cinque anni. E i cinque anni sono diventati 30. Cosa vogliono, uno Stato unico? Siamo pronti. Uno Stato unico con pari diritti? Siamo pronti. Ma Israele non lo vuole. Due Stati? Noi siamo pronti, ma loro non lo vogliono. Vogliono continuare a occuparci e pretendono che restiamo zitti. Non sto dando la colpa agli israeliani, sto incolpando gli europei per la loro posizione: la prima cosa che l’Europa ha detto dopo il 7 ottobre è stato proporre il taglio degli aiuti ai palestinesi. Come può questo aiutare la pace? Dovremmo cercare delle soluzioni. Non dovremmo continuare solo a condannare Hamas o a condannare gli israeliani. Condannare è una posizione da intellettuali. Voglio che l’Europa si alzi in piedi e dica: come poniamo fine al problema?

Si dovrebbe tornare alla radice?

Trattano la situazione come se la storia fosse iniziata il 7 ottobre, come se non ci fosse una storia di occupazione di decenni. Condanno sicuramente e con forza qualsiasi uccisione di civili. Ma a livello militare, gli israeliani hanno fallito tremendamente nel proteggere il loro stesso popolo. Non riesco ancora a capire come Hamas abbia potuto fare tutto quello che ha fatto senza che gli israeliani intervenissero per 4 o 5 ore. E ora, invece di mettere Netanyahu sotto inchiesta, attaccano i palestinesi. Netanyahu dovrebbe essere imprigionato per la crudeltà che esercita sulla sua stessa società e su di noi. Quanto è eroico attaccare civili dall’alto per compiacere il proprio popolo? Qual è lo scopo di tutto ciò, sbarazzarsi di Hamas? Posso assicurarvi che Hamas continuerà a esistere. Non sono una sostenitrice di Hamas, ma so leggere la realtà.