19 novembre 2024

Israele. Coloni oltre la democrazia - «Non ci sono esseri umani non coinvolti, a Gaza – dice – nemmeno i bambini: avete un mese per portarveli via tutti, passato quel mese li ammazziamo e restiamo noi a vivere sulla nostra terra da soli, finalmente».

 

Foto di un insediamento israeliano

«Non ci sono esseri umani non coinvolti, a Gaza – dice – nemmeno i bambini. E se mi chiedi la mia, bene, io direi a tutta la comunità internazionale: avete un mese per portarveli via tutti, passato quel mese li ammazziamo e restiamo noi a vivere sulla nostra terra da soli, finalmente».

FRANCESCA MANNOCCHI "La Stampa" 18 novembre 2024


Yehuda Shimon è un avvocato ma sostiene di non credere ad altra legge se non quella di Dio. Non crede alla legge degli uomini nel suo paese, Israele, e non crede al diritto internazionale. Oltre a non credere alla legge, Yehuda Shimon non crede nemmeno alla democrazia. Pensa che se ci fosse una vera democrazia in Israele, la gente lascerebbe fare a Netanyahu ciò di cui c’è bisogno, senza le proteste di piazza e senza gli impedimenti che la legge mette ai coloni come lui. Per queste ragioni Yehuda Shimon invece di votare, prega: «Il Messia non ha bisogno di cento persone in un parlamento, la democrazia è uno scherzo».

Il Messia non ha bisogno della democrazia ma i coloni hanno bisogno di sostegno politico e questo governo, come mai nessuno prima, ha aperto la strada all’annessione dei territori palestinesi da parte dei coloni: «non crediamo alla politica, ma la politica ci serve», dice Shimon, che chiama il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir per nome, che mostra le fotografie della sua famiglia in compagnia del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e che sorride soddisfatto di fronte a un messaggio che lo informa che la ministra degli Insediamenti Orit Strook, anche lei esponente di Sionismo Religioso, entrerà a far parte del gabinetto di guerra.

Strook, che nel luglio scorso aveva definito gli ultimi mesi un «miracolo» per la veloce espansione degli insediamenti, «un momento miracoloso come quando sei fermo a un semaforo e senti beep, beep. E poi c’è il verde e metti il turbo». Dove il semaforo è la legge e il turbo è l’allargamento senza freni degli insediamenti illegali. Anche per l’avvocato Yehuda Shimon il semaforo rosso è la legge e un pezzo della luce verde è l’elezione di Donal Trump. «Prego Dio che lo benedica, che Trump ci sostenga e continui a favorire la nostra idea di Israele, come ha già fatto». Le recenti nomine lasciano pensare che sia così. Soprattutto quella dell’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, che ha detto: «non esiste la Cisgiordania. Esistono Giudea e Samaria. Non esistono gli insediamenti. Sono comunità. Sono quartieri. Sono città. Non esiste l’occupazione».

Mike Huckabee è un fervente cristiano evangelico che ha fatto molti viaggi in Israele e molti ne ha fatti fare alle comunità americane di cristiani evangelici che hanno abbracciato l’espansione di Israele e il movimento degli insediamenti, al punto che una figura di spicco del governo Netanyahu, Ron Dermer, una volta disse che Israele avrebbe dovuto dare priorità al sostegno appassionato dei cristiani evangelici rispetto a quello degli ebrei americani, che sono molto più critici nei confronti del governo di destra. Il sostegno di certo non manca, perché i cristiani evangelici americani non si limitano ai tour guidati negli insediamenti, ma li finanziano con copiose donazioni. Larga parte delle costruzioni di Havat Gilad sono state pagate da loro, anche parte di casa di Yehuda Shimon, sua moglie e i loro 11 figli.

Storia di un insediamento

Havat Gilad si trova a 20 chilometri dalla Linea Verde, incastrato in un’area remota della Cisgiordania occupata, tra diversi villaggi palestinesi nella zona di Nablus. L’avamposto è stato fondato da Moshe Zar, un membro di Jewish Underground, considerata un’organizzazione terroristica in Israele, che negli anni ’80 organizzò attacchi con le autobombe contro i sindaci di Nablus e Ramallah e stava organizzando la distruzione della Cupola della Roccia a Gerusalemme. Moshe Zar era uno di loro. Nel 1984, venne condannato a tre anni di prigione per il suo ruolo nell’assassinio di sindaci palestinesi, ma trascorse in prigione solo pochi mesi. Quando nel 2001 uno dei suoi figli, Gilad, fondatore dell’avamposto Itamar, è stato ucciso da un palestinese mentre era di guardia nelle forze di sicurezza dei coloni, Zar ha giurato di costituire un avamposto per ogni lettera del nome di suo figlio. Havat Gilad è nata così. Poche ore dopo la morte del ragazzo un gruppo di coloni si è stabilito con tende e roulottes, all’inizio c’erano cinque, sei famiglie e una grande stella di David in cima alla collina. Poi, negli anni, sono arrivate decine di altre famiglie, una dopo l’altra e Havat Gilad si è mangiata le colline circostanti, un tempo terra di palestinesi.

L’amministrazione civile israeliana negli anni ha emesso ordini di demolizione per le strutture e i container e nel primo anno di attività dell’avamposto le forze di sicurezza le hanno demolite più volte, ma ogni volta i coloni le ricostruivano. Poi nel 2018 il rabbino della comunità, Raziel Sevach, è stato ucciso da un palestinese e questo ha spianato la strada per il riconoscimento. Da allora le autorità israeliane non hanno più tentato di sfrattare l’avamposto e hanno chiuso un occhio sulla costruzione in corso. Difeso dalle forze di sicurezza, l’avamposto si è espanso e occupa circa 450 dunam (45 ettari) di terreni agricoli e pascoli di proprietà privata di palestinesi dei villaggi di Farata, Tal e Jit. L’organizzazione israeliana Peace Now l’ha definito uno «sfruttamento cinico di un omicidio abominevole».

Oggi a Havat Gilad ci sono circa 100 famiglie e altrettante costruzioni, tra container e abitazioni, più le tende dei nuovi quartieri in espansione. La “legalizzazione” (almeno da lato israeliano, perché le colonie erano e restano illegali per il diritto umanitario internazionale) non è ancora compiuta. A Havat Gilad, secondo i coloni che la abitano, non ci sono ancora abbastanza scuole ed elettricità, non abbastanza fondi governativi, ma almeno, dice l’avvocato Yehuda Shimon, arrivano gli aiuti degli amici evangelici americani. «Molte delle nuove costruzioni che vedi intorno a noi, le dobbiamo a loro».

La ferita di Gush Katif e il futuro Yehuda Shimon dice che ogni famiglia che decide di venire a vivere qui ha una ragione solida che lo spinge. Lui, sua moglie e gli 11 figli, sono arrivati qui all’inizio della fondazione dell’avamposto da Gerusalemme, prima ancora vivevano a Gush Katif, gli insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza, smantellati dopo il disimpegno unilaterale di Sharon del 2005. La ferita mai rimarginata di Gush Katif, dell’abbandono di Gaza, è una delle radici del fondamentalismo dei coloni in Cisgiordania e anche una delle ragioni per cui non credono nella politica ma si definiscono un acceleratore della politica stessa. «Siamo noi che ci serviamo di loro e dettiamo la linea, non il contrario – dice Shimon –.

L’evacuazione da Gaza è stata una rovina. Crediamo che ogni luogo della terra d’Israele ci appartenga e che dobbiamo viverci. È in quel momento che abbiamo capito che più terra prendiamo, più ci espandiamo, più sarà difficile mandarci via». Come avvocato, Shimon si occupa di progetti di costruzione nell’area. Fino al 7 ottobre per lui lavoravano 300 palestinesi. Oggi non più, perché i coloni non vogliono dare più lavoro ai palestinesi e li stanno via via sostituendo con un flusso di manodopera dal Sud Est asiatico. Quando era il loro datore di lavoro Shimon non si atteneva alle norme della Corte Suprema di Israele, cioè non pagava i palestinesi quanto gli operai israeliani. Non lo riteneva giusto.

Ricordava ai suoi addetti palestinesi che la terra apparteneva solo a loro, agli ebrei. E loro, dice, tacevano. Interrogato sul perché, secondo lui, restassero in silenzio, Shimon ride e risponde: «perché hanno paura di me. Sapevano che li avrei mandati via, e sarebbero rimasti senza lavoro e senza paga». Hanno paura di lui anche perché nell’avamposto di Havat Gilad cresce parte della gioventù delle colline, i giovani estremisti che si sono macchiati di crimini sempre più violenti. Uno degli ultimi, l’assalto al vicino villaggio di Jit, a ferragosto. Decine di coloni sono entrati nel villaggio, hanno dato fuoco a macchine e case e ucciso un giovane disarmato. Shimon dice: «non ci sono le prove che fossero i nostri, nelle immagini erano incappucciati».

Sua moglie Ilana si vuole mostrare più moderata, mostra le foto dei figli, la più grande è al fronte in Libano, ha 23 anni. Racconta degli anni in cui hanno vissuto nelle tende e nelle roulotte, senza acqua né elettricità, per la grande missione che li anima. Guarda i villaggi intorno, e dice: «vedi, continuano a costruire». A nulla vale l’obiezione che quella intorno sia terra dei palestinesi e che sono loro, i coloni, che costruendo su quella terra continuano e ampliano l’espansione di un’occupazione illegale che dura da 57 anni. Ilana mostra con orgoglio le nuove colline occupate, i giovani pionieri che stanno arrivando negli ultimi mesi con i figli neonati.

Dei bambini di Gaza però non vuole parlare. Suo marito invece sì, la Gaza da cui i coloni sono stati, secondo lui, ingiustamente evacuati. La Gaza a cui si deve tornare, così come in Sinai, così come in Libano, le terre del grande Israele e della Redenzione. I tempi per tornare in Sinai e in Libano li vede lontani, quelli per tornare a Gaza no. «Non ci sono esseri umani non coinvolti, a Gaza – dice – nemmeno i bambini. E se mi chiedi la mia, bene, io direi a tutta la comunità internazionale: avete un mese per portarveli via tutti, passato quel mese li ammazziamo e restiamo noi a vivere sulla nostra terra da soli, finalmente».

in “La Stampa” del 18 novembre 2024



12 novembre 2024

Il 45% degli ebrei israeliani preferisce la guerra alla pace. E i palestinesi?

 

La Cupola della Roccia di Gerusalemme, vista dal lato palestinese del Muro. Ciò che l’opinione pubblica israeliana vede come il “massacro del 7 ottobre” appare molto diverso agli occhi dei palestinesi. Alex Levac

di Dani Bar On,

Haaretz, 9 novembre 2024.   

Le indagini condotte in Israele, Cisgiordania e Gaza offrono spiragli di speranza, tra molti motivi di disperazione.

Ci sono alcune frasi in Israele che, quando vengono pronunciate, creano un senso di jamais vu, l’opposto del déjà vu, ossia un’esperienza in cui qualcosa di familiare appare strano, come una cosa mai vista. Frasi come “negoziati di pace”, “due stati per due popoli” o “colloqui diretti” generano questa sensazione. Oggi le storie di alieni extraterrestri sembrano più probabili di queste frasi. Infatti, secondo un sondaggio su larga scala pubblicato lo scorso settembre, il 68% degli ebrei israeliani si oppone alla soluzione dei due stati, mentre solo il 21% è favorevole – il punto più basso da decenni. Inoltre, il 42% (!) di questi ebrei sostiene la creazione di un unico stato a supremazia ebraica tra il fiume Giordano e il mare.

Si potrebbe pensare che, con una guerra sanguinosa che si trascina, anche i palestinesi ne abbiano abbastanza degli israeliani e che, di conseguenza, anche il loro sostegno a due stati indipendenti sia diminuito, a scapito della visione di un unico stato palestinese – caro agli occhi di tanti manifestanti nei campus statunitensi.

Eppure sembra che sia vero il contrario. Secondo lo stesso sondaggio – condotto lo scorso luglio dai dottori Nimrod Rosler e Alon Yakter, entrambi dell’Università di Tel Aviv, dalla dottoressa Dahlia Scheindlin e dal ricercatore palestinese Khalil Shikaki del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) – il 40% dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est sostiene la soluzione dei due stati. Tra loro c’è stato addirittura un aumento significativo del sostegno a questa soluzione da prima della cosiddetta guerra del 7 ottobre, mentre tra gli ebrei israeliani c’è stato un calo.

I palestinesi preferiscono questo tipo di soluzione rispetto all’alternativa di uno stato dominato dai palestinesi tra il Giordano e il mare (33%) o di un unico stato democratico per ebrei e arabi (25%). Quando Shikaki ha posto la domanda a settembre, senza menzionare Israele – in altre parole, ha chiesto ai palestinesi dei Territori se sarebbero d’accordo ad accontentarsi di uno stato nei territori occupati da Israele in Cisgiordania e a Gaza – il sostegno è salito al 59%. Un altro sondaggio, condotto dall’Istituto per il progresso sociale ed economico (ISEP) con sede a Ramallah, ha rilevato un sostegno ancora più alto: 62% in Cisgiordania, 83% nella Striscia.

Gli israeliani che credono ancora nell’idea dei due stati rischiano di disperarsi se considerano le variabili dell’età e dell’appartenenza religiosa che influenzano le risposte dell’intero pubblico ebraico: Mentre tra gli ebrei israeliani di età superiore ai 55 anni il sostegno alla soluzione dei due stati è del 39%, tra quelli della fascia di età compresa tra i 18 e i 34 anni è dell’8%, mentre scende al 3% tra gli ebrei ortodossi e all’1% tra gli ultraortodossi.

Un unico raggio di luce è emerso quando la domanda è stata posta in modo più ampio. “Se la scelta è tra una guerra regionale che includa Israele, l’Autorità Palestinese, il Libano, lo Yemen e forse l’Iran, oppure un accordo di pace regionale che includa un accordo palestinese-israeliano basato sulla soluzione dei due stati e sulla normalizzazione arabo-israeliana”, il sondaggio ha chiesto, “qual è la sua preferenza?”.

Tra i palestinesi, il 65% ha risposto che preferirebbe la pace regionale alla guerra regionale – con una minima discrepanza, su questa domanda, tra i palestinesi della Cisgiordania e quelli di Gaza. Per quanto riguarda gli arabi di Israele, l’89% degli intervistati ha optato per l’alternativa della pace regionale. Tra gli ebrei in Israele, la pace ha vinto ai punti sulla guerra, ma non per ko: 55% contro 45%.

Un risultato simile è stato ottenuto in un sondaggio condotto all’inizio di ottobre dall’istituto di ricerca Agam Labs, diretto dallo psicologo politico Nimrod Nir dell’Università Ebraica. Alla richiesta di esprimere una preferenza per uno stato palestinese smilitarizzato, con un cosiddetto governo moderato e la supervisione di altri stati arabi, o per l’annessione della Striscia di Gaza, il 55% degli ebrei israeliani ha scelto uno stato palestinese smilitarizzato, contro il 45% che ha preferito l’annessione. Buona notizia per coloro che sono in grado di concentrarsi sul bicchiere pieno del 55%.

Allo stesso tempo, l’avversione alla soluzione dei due stati non significa che gli israeliani vogliano che la guerra continui ad ogni costo. Anche un mediocre esperto nel campo dei sondaggi sa che il modo in cui vengono formulate le domande può esercitare un’influenza cruciale sulle risposte. Nello stesso sondaggio, quando Nir ha chiesto agli intervistati di scegliere tra la continuazione della guerra nel sud pagando il prezzo della morte della maggior parte degli ostaggi, o la cessazione della guerra in cambio del loro rilascio, il 75% della popolazione araba di Israele e il 72% della popolazione ebraica si sono espressi a favore della fine della guerra. Non si tratta di un risultato eccezionale: I sondaggi dell’Agam hanno mostrato una maggioranza della popolazione ebraica favorevole alla fine della guerra almeno da marzo.

Torniamo alla questione dei due stati. Il politologo Colin Irwin dell’Università di Liverpool, che ha contribuito alla risoluzione di numerosi conflitti in tutto il mondo, è ben lontano dal pensare che la situazione sia ormai una causa persa. “I sondaggisti che non hanno lavorato durante i processi di pace non ne comprendono il funzionamento”, spiega Irwin. “Nei negoziati reali, una scala binaria non ha alcun valore”.

Si dovrebbe invece chiedere agli intervistati di dare un voto alla loro opinione su una scala, cioè di decidere se la soluzione proposta è “necessaria” a loro avviso, “desiderabile ma non necessaria”, “non particolarmente desiderabile ma accettabile”, “non desiderabile ma con cui si può convivere” – o “decisamente inaccettabile”. Lo scorso maggio, quando Irwin ha posto una domanda simile agli israeliani, sia ebrei che arabi, tramite la sondaggista israeliana Mina Tzemach, il 43% ha risposto che dal loro punto di vista la soluzione dei due stati è “decisamente inaccettabile”. Irwin ritiene che si tratti di un dato incoraggiante, visto che è stato ottenuto in tempo di guerra, e aggiunge trionfalmente che questa percentuale è inferiore a quella dei protestanti (52%) che nel 1998 si opponevano fermamente a un accordo di condivisione del potere in Irlanda del Nord, prima che venisse firmato l’accordo del Venerdì Santo.

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04 novembre 2024

Sterminare, espellere, reinsediarsi: la partita finale di Israele nel nord di Gaza

 


di Idan Landau,  +972 Magazine, 1 novembre 2024. 

Il dibattito sui dettagli del ‘Piano dei Generali’ distrae dalla vera brutalità dell’ultima operazione di Israele, che ha abbandonato la facciata delle considerazioni umanitarie e sta gettando le basi per gli insediamenti.

Guardate le due foto seguenti, scattate entrambe il 21 ottobre 2024. A destra, vediamo una lunga fila di sfollati – o, più precisamente, di donne e bambini – nelle rovine del campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza. Gli uomini di età superiore ai 16 anni sono separati, sventolano una bandiera bianca e tengono in mano le loro carte d’identità. Stanno per uscire. 

Sterminare, espellere, reinsediarsi: la partita finale di Israele nel nord di Gaza

Per approfondire:

La task force israeliana che deporta attivisti stranieri dalla Cisgiordania

Come Netanyahu ha sfruttato i falsi ‘documenti di Hamas’ venuti alla luce mentre le proteste per gli ostaggi stavano aumentando

Una famiglia palestinese va a raccogliere olive. Finisce con un’esecuzione da parte dei soldati israeliani

La rivista scientifica medica ‘The Lancet’ pubblica due interventi sulla sanità a Gaza

Centro addestrativo per i piloti elicotteri da guerra in Liguria. A realizzarlo l’israeliana Elbit Systems

31 ottobre 2024

INIZIATIVE IN SOLIDARIETA' CON IL POPOLO PALESTINESE

 A VICENZA E DINTORNI



    


Per il conflitto Israelo-palestinese viene ormai quasi univocamente invocata la “SOLUZIONE A DUE STATI” come fosse l’unica possibile (lo affermano l’ONU, Biden, il Papa, Mattarella, Meloni e tanti tanti altri…). “Questo MITO ben noto viene solitamente espresso in modo perentorio e afferma che esiste una soluzione del conflitto israelo-palestinese proprio dietro l’angolo. Tuttavia, la realtà dell’attuale colonizzazione di ingenti aree della Cisgiordania da parte di Israele rende improbabile qualsiasi soluzione a due stati…. 
È impensabile che la lotta per la liberazione nazionale, che ha ormai 150 anni, possa concludersi con un governo autonomo su appena il 20% della Palestina storica.” Questo scrive Ilan Pappé, ebreo israeliano, storico, che insegna in Inghilterra. Viene da pensare che tutti coloro che vedono in questa l’unica soluzione possibile, nella più benigna delle interpretazioni, non sappiano veramente di cosa stanno parlando.  Abbiamo deciso di dare spazio su questo tema alla voce di una persona giovane. Da Roma, dove vive, verrà a parlarcene ROBERTA SAIANI, laureata in Relazioni internazionali con master in politica internazionale, appassionata di analisi geopolitiche.
Vogliamo non perdere la speranza e la fiducia nell’uomo, dando la giusta considerazione a quanto auspicato da Edward W.Said (1935-2003, accademico palestinese nato a Gerusalemme e poi trasferito negli USA): “la scommessa sta nel trovare il modo pacifico di coesistere non come ebrei, musulmani e cristiani in guerra tra loro, ma come cittadini a pari diritti di una stessa terra”.

                                                       



 

   

IN ITALIA








23 ottobre 2024

Israele commette il più grande massacro finora avvenuto nel nord di Gaza

 

 Qassam Muaddi,  Mondoweiss, 21 ottobre 2024.   

L’assedio del nord di Gaza e del campo profughi di Jabalia entra nella sua terza settimana, mentre Israele ha tagliato gli aiuti a circa 200.000 persone. Sabato, le forze israeliane hanno bombardato Beit Lahia, uccidendo almeno 80 palestinesi, in uno dei più grandi massacri degli ultimi mesi.

Israele continua ad assediare il nord di Gaza e il campo profughi di Jabalia per il 16° giorno consecutivo, bloccando l’ingresso degli aiuti umanitari per circa 200.000 persone, tra continui attacchi aerei e bombardamenti di artiglieria.

Sabato 19 ottobre, le forze israeliane hanno bombardato un blocco residenziale a Beit Lahia, nel nord di Gaza, uccidendo almeno 80 palestinesi e ferendone oltre 100, segnando il più grande massacro nel nord di Gaza da mesi. Sempre sabato, le forze israeliane hanno bombardato il quartiere di Tel al-Zaatar, a Jabalia, uccidendo 33 palestinesi, tra cui 21 donne, e ferendone oltre 85.

Il direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, il dottor Husam Abu Safiyeh, ha dichiarato ad Al Jazeera che l’ospedale è pieno di personale medico esaurito e ai limitati, in una situazione di grave carenza di forniture mediche, cibo e carburante per i generatori di energia.

Il Dr. Abu Safiyeh ha anche detto che è la prima volta che l’ospedale affronta questo livello di condizioni disastrose dall’inizio della guerra, aggiungendo che sta lavorando alla massima capacità con risorse minime, dando priorità solo ai casi che possono essere salvati. Ha anche sottolineato che l’ospedale ha esaurito il sangue e che i medici sono andati in strada per chiedere alle persone di fare donazioni di sangue.

Fonti locali hanno riferito che le forze israeliane hanno arrestato decine di uomini e donne a Jabalia, detenendo un numero imprecisato di uomini prima di rilasciare gli altri.

Nel frattempo, le forze israeliane continuano a incontrare la resistenza dei gruppi palestinesi a Jabalia. Domenica, l’esercito israeliano ha ammesso l’uccisione del colonnello Ihsan Daqsa, il comandante della 401esima Brigata Corazzata dell’esercito israeliano in un combattimento a Jabalia.

L’ala armata di Hamas, le Brigate al-Qassam, hanno pubblicato un filmato dei propri combattenti che tendono un’imboscata ai soldati israeliani all’interno di un edificio, prendendo poi di mira i veicoli blindati che erano intervenuti in soccorso. Secondo al-Qassam, il filmato proveniva da Jabalia.

Lunedì 21, gli israeliani si sono riuniti vicino al kibbutz Be’iri, a tre chilometri dalla Striscia di Gaza, per chiedere di ‘reinsediare’ Gaza. Alla manifestazione hanno partecipato diversi membri della Knesset israeliana e ministri e leader dei coloni, tra cui il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir e il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, come riportato dai media israeliani. Il reinsediamento a Gaza è stato sostenuto fin dall’anno scorso dal movimento dei coloni israeliani con l’appoggio di politici israeliani, compresi membri del governo.

Le richieste di reinsediamento si allineano al “Piano dei Generali”, che Israele è stato accusato di aver attuato nel nord di Gaza. Israele nega ufficialmente che la sua offensiva nel nord sia un’attuazione di tale piano, anche se Netanyahu, due settimane prima dell’inizio dell’assedio al nord di Gaza, ha detto ai legislatori israeliani che lo stava prendendo in considerazione.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Un piano per liquidare il nord di Gaza sta prendendo piede

Netanyahu ha detto che Israele non si reinsedierà a Gaza. Ma i suoi stessi ministri raccontano una storia diversa