FRANCESCA MANNOCCHI "La Stampa" 18 novembre 2024
Yehuda Shimon è un avvocato ma sostiene di non credere ad altra legge se non quella di Dio. Non crede alla legge degli uomini nel suo paese, Israele, e non crede al diritto internazionale. Oltre a non credere alla legge, Yehuda Shimon non crede nemmeno alla democrazia. Pensa che se ci fosse una vera democrazia in Israele, la gente lascerebbe fare a Netanyahu ciò di cui c’è bisogno, senza le proteste di piazza e senza gli impedimenti che la legge mette ai coloni come lui. Per queste ragioni Yehuda Shimon invece di votare, prega: «Il Messia non ha bisogno di cento persone in un parlamento, la democrazia è uno scherzo».
Il Messia non ha bisogno della democrazia ma i coloni hanno bisogno di sostegno politico e questo governo, come mai nessuno prima, ha aperto la strada all’annessione dei territori palestinesi da parte dei coloni: «non crediamo alla politica, ma la politica ci serve», dice Shimon, che chiama il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir per nome, che mostra le fotografie della sua famiglia in compagnia del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e che sorride soddisfatto di fronte a un messaggio che lo informa che la ministra degli Insediamenti Orit Strook, anche lei esponente di Sionismo Religioso, entrerà a far parte del gabinetto di guerra.
Strook, che nel luglio scorso aveva definito gli ultimi mesi un «miracolo» per la veloce espansione degli insediamenti, «un momento miracoloso come quando sei fermo a un semaforo e senti beep, beep. E poi c’è il verde e metti il turbo». Dove il semaforo è la legge e il turbo è l’allargamento senza freni degli insediamenti illegali. Anche per l’avvocato Yehuda Shimon il semaforo rosso è la legge e un pezzo della luce verde è l’elezione di Donal Trump. «Prego Dio che lo benedica, che Trump ci sostenga e continui a favorire la nostra idea di Israele, come ha già fatto». Le recenti nomine lasciano pensare che sia così. Soprattutto quella dell’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, che ha detto: «non esiste la Cisgiordania. Esistono Giudea e Samaria. Non esistono gli insediamenti. Sono comunità. Sono quartieri. Sono città. Non esiste l’occupazione».
Mike Huckabee è un fervente cristiano evangelico che ha fatto molti viaggi in Israele e molti ne ha fatti fare alle comunità americane di cristiani evangelici che hanno abbracciato l’espansione di Israele e il movimento degli insediamenti, al punto che una figura di spicco del governo Netanyahu, Ron Dermer, una volta disse che Israele avrebbe dovuto dare priorità al sostegno appassionato dei cristiani evangelici rispetto a quello degli ebrei americani, che sono molto più critici nei confronti del governo di destra. Il sostegno di certo non manca, perché i cristiani evangelici americani non si limitano ai tour guidati negli insediamenti, ma li finanziano con copiose donazioni. Larga parte delle costruzioni di Havat Gilad sono state pagate da loro, anche parte di casa di Yehuda Shimon, sua moglie e i loro 11 figli.
Storia di un insediamento
Havat Gilad si trova a 20 chilometri dalla Linea Verde, incastrato in un’area remota della Cisgiordania occupata, tra diversi villaggi palestinesi nella zona di Nablus. L’avamposto è stato fondato da Moshe Zar, un membro di Jewish Underground, considerata un’organizzazione terroristica in Israele, che negli anni ’80 organizzò attacchi con le autobombe contro i sindaci di Nablus e Ramallah e stava organizzando la distruzione della Cupola della Roccia a Gerusalemme. Moshe Zar era uno di loro. Nel 1984, venne condannato a tre anni di prigione per il suo ruolo nell’assassinio di sindaci palestinesi, ma trascorse in prigione solo pochi mesi. Quando nel 2001 uno dei suoi figli, Gilad, fondatore dell’avamposto Itamar, è stato ucciso da un palestinese mentre era di guardia nelle forze di sicurezza dei coloni, Zar ha giurato di costituire un avamposto per ogni lettera del nome di suo figlio. Havat Gilad è nata così. Poche ore dopo la morte del ragazzo un gruppo di coloni si è stabilito con tende e roulottes, all’inizio c’erano cinque, sei famiglie e una grande stella di David in cima alla collina. Poi, negli anni, sono arrivate decine di altre famiglie, una dopo l’altra e Havat Gilad si è mangiata le colline circostanti, un tempo terra di palestinesi.
L’amministrazione civile israeliana negli anni ha emesso ordini di demolizione per le strutture e i container e nel primo anno di attività dell’avamposto le forze di sicurezza le hanno demolite più volte, ma ogni volta i coloni le ricostruivano. Poi nel 2018 il rabbino della comunità, Raziel Sevach, è stato ucciso da un palestinese e questo ha spianato la strada per il riconoscimento. Da allora le autorità israeliane non hanno più tentato di sfrattare l’avamposto e hanno chiuso un occhio sulla costruzione in corso. Difeso dalle forze di sicurezza, l’avamposto si è espanso e occupa circa 450 dunam (45 ettari) di terreni agricoli e pascoli di proprietà privata di palestinesi dei villaggi di Farata, Tal e Jit. L’organizzazione israeliana Peace Now l’ha definito uno «sfruttamento cinico di un omicidio abominevole».
Oggi a Havat Gilad ci sono circa 100 famiglie e altrettante costruzioni, tra container e abitazioni, più le tende dei nuovi quartieri in espansione. La “legalizzazione” (almeno da lato israeliano, perché le colonie erano e restano illegali per il diritto umanitario internazionale) non è ancora compiuta. A Havat Gilad, secondo i coloni che la abitano, non ci sono ancora abbastanza scuole ed elettricità, non abbastanza fondi governativi, ma almeno, dice l’avvocato Yehuda Shimon, arrivano gli aiuti degli amici evangelici americani. «Molte delle nuove costruzioni che vedi intorno a noi, le dobbiamo a loro».
La ferita di Gush Katif e il futuro Yehuda Shimon dice che ogni famiglia che decide di venire a vivere qui ha una ragione solida che lo spinge. Lui, sua moglie e gli 11 figli, sono arrivati qui all’inizio della fondazione dell’avamposto da Gerusalemme, prima ancora vivevano a Gush Katif, gli insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza, smantellati dopo il disimpegno unilaterale di Sharon del 2005. La ferita mai rimarginata di Gush Katif, dell’abbandono di Gaza, è una delle radici del fondamentalismo dei coloni in Cisgiordania e anche una delle ragioni per cui non credono nella politica ma si definiscono un acceleratore della politica stessa. «Siamo noi che ci serviamo di loro e dettiamo la linea, non il contrario – dice Shimon –.
L’evacuazione da Gaza è stata una rovina. Crediamo che ogni luogo della terra d’Israele ci appartenga e che dobbiamo viverci. È in quel momento che abbiamo capito che più terra prendiamo, più ci espandiamo, più sarà difficile mandarci via». Come avvocato, Shimon si occupa di progetti di costruzione nell’area. Fino al 7 ottobre per lui lavoravano 300 palestinesi. Oggi non più, perché i coloni non vogliono dare più lavoro ai palestinesi e li stanno via via sostituendo con un flusso di manodopera dal Sud Est asiatico. Quando era il loro datore di lavoro Shimon non si atteneva alle norme della Corte Suprema di Israele, cioè non pagava i palestinesi quanto gli operai israeliani. Non lo riteneva giusto.
Ricordava ai suoi addetti palestinesi che la terra apparteneva solo a loro, agli ebrei. E loro, dice, tacevano. Interrogato sul perché, secondo lui, restassero in silenzio, Shimon ride e risponde: «perché hanno paura di me. Sapevano che li avrei mandati via, e sarebbero rimasti senza lavoro e senza paga». Hanno paura di lui anche perché nell’avamposto di Havat Gilad cresce parte della gioventù delle colline, i giovani estremisti che si sono macchiati di crimini sempre più violenti. Uno degli ultimi, l’assalto al vicino villaggio di Jit, a ferragosto. Decine di coloni sono entrati nel villaggio, hanno dato fuoco a macchine e case e ucciso un giovane disarmato. Shimon dice: «non ci sono le prove che fossero i nostri, nelle immagini erano incappucciati».
Sua moglie Ilana si vuole mostrare più moderata, mostra le foto dei figli, la più grande è al fronte in Libano, ha 23 anni. Racconta degli anni in cui hanno vissuto nelle tende e nelle roulotte, senza acqua né elettricità, per la grande missione che li anima. Guarda i villaggi intorno, e dice: «vedi, continuano a costruire». A nulla vale l’obiezione che quella intorno sia terra dei palestinesi e che sono loro, i coloni, che costruendo su quella terra continuano e ampliano l’espansione di un’occupazione illegale che dura da 57 anni. Ilana mostra con orgoglio le nuove colline occupate, i giovani pionieri che stanno arrivando negli ultimi mesi con i figli neonati.
Dei bambini di Gaza però non vuole parlare. Suo marito invece sì, la Gaza da cui i coloni sono stati, secondo lui, ingiustamente evacuati. La Gaza a cui si deve tornare, così come in Sinai, così come in Libano, le terre del grande Israele e della Redenzione. I tempi per tornare in Sinai e in Libano li vede lontani, quelli per tornare a Gaza no. «Non ci sono esseri umani non coinvolti, a Gaza – dice – nemmeno i bambini. E se mi chiedi la mia, bene, io direi a tutta la comunità internazionale: avete un mese per portarveli via tutti, passato quel mese li ammazziamo e restiamo noi a vivere sulla nostra terra da soli, finalmente».
in “La Stampa” del 18 novembre 2024