
di GIUSEPPE SAVAGNONE
È quasi scomparsa dalle prime pagine dei giornali e dai notiziari televisivi italiani la tragedia della Palestina. E anche l’opinione pubblica – che aveva espresso la sua indignazione con manifestazioni di un’imponenza mai vista da molti anni – sembra essersela ormai lasciata alle spalle. Effetto dell’entrata in vigore del piano di pace con cui Donald Trump ha mancato per un pelo il premio Nobel e ha comunque ricevuto un incondizionato plauso internazionale, fino ad essere paragonato a Ciro il Grande, «strumento di Dio» nella liberazione degli ebrei.
Tutto è bene quel che finisce bene
Le scene trionfali della firma del trattato, a Sharm el-Sheikh, al cospetto di più di venti presidenti e primi ministri di tutta l’Europa e dei paesi arabi, hanno assunto agli occhi del mondo il significato di una felice conclusione del dramma umanitario che aveva sempre più inquietato le coscienze e messo in difficoltà i Governi.
Anche la grande maggioranza degli opinionisti, che aveva tenacemente difeso il diritto di Israele di difendersi, cominciava ad essere a disagio, di fronte agli scenari di massacri e devastazioni trasmessi ogni giorno in diretta (a costo spesso della loro vita) dai giornalisti palestinesi. Anche loro perciò hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, inneggiando al piano di pace come alla giusta soluzione che chiudeva finalmente la questione, dando a ciascuno ciò che gli spettava.
A confermare questa percezione è venuta l’approvazione, da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il 17 novembre scorso, della risoluzione che, sulla linea del piano Trump, affida per due anni al presidente americano il controllo della Striscia attraverso un organismo, il «Consiglio di pace», i cui membri saranno scelti direttamente dallo stesso presidente.
Il merito che è stato unanimemente attribuito al presidente degli Stati Uniti è stato quello di aver finalmente messo fine a uno spargimento di sangue che durava da due anni. Molti hanno parlato di un miracolo, di cui Trump sarebbe stato l’autore con la sua proposta di pace che nessuno fino ad allora aveva provato a fare.
Qualche perplessità controcorrente
In questo clima di beatificazione del Tychoon, quasi nessuno si è azzardato a far notare che questo primato dipendeva dal fatto che il massacro in corso a Gaza era sostenuto, politicamente e militarmente, dagli Stati Uniti e che perciò solo il presidente americano era in grado di fermare Netanyahu. Cosicché sarebbe stato legittimo, se mai, chiedersi perché lo avesse fatto solo ora, a prezzo della vita di migliaia di innocenti.
Così come nessuno o quasi si è posto il problema della consistenza di una pace siglata sulla testa di un popolo rigorosamente escluso dalle trattative, anche nella sua rappresentanza legittima, quell’Autorità Nazionale Palestinese che da tempo riconosce lo Stato ebraico (senza esserne ricambiata).
Perché – come ci si è ricordati invece davanti all’analogo piano di pace americano per l’Ucraina – non basta, per una vera pace, che essa faccia cessare la guerra, ma è necessario che sia giusta.
Per questo motivo gli stessi Governi e gli stessi giornalisti che avevano salutato con entusiasmo la fine delle stragi a Gaza senza porsi altre domande, hanno invece ritenuto irricevibile l’ultima proposta di Trump, sia perché non rispettosa del popolo ucraino, sia perché non concordata con i suoi legittimi rappresentanti. Confermando ancora una volta il doppio standard della diplomazia occidentale, e in particolare di quella europea, nei confronti di questi due conflitti.
Un’illusione ottica
Resta il fatto che la crisi di Gaza è data ormai per risolta, anche se resta qualche pendenza da risolvere nella cosiddetta «fase due», e l’attenzione del mondo si concentra adesso esclusivamente su quella ucraina.
In realtà, siamo davanti a una di quelle illusioni ottiche che l’apparato mediatico, al servizio di precisi interessi politici, è capace di generare a livello pubblico. Anche se alcune voci isolate si sono levate per smascherarla. Come quella Lorenzo Kamel, professore di Storia Internazionale all’Università di Torino e adjunct professor alla Luiss School of Government che, dopo la risoluzione dell’ONU, ha parlato di «un grande giorno per Netanyahu, Hamas e Trump», e di «un brutto giorno per la sicurezza a lungo termine dello Stato di Israele, per l’autodeterminazione palestinese e più in generale anche per le tante persone perbene che ci sono nel nostro mondo».
Perché è vero che con questa pretesa pace i morti innocenti sono molto diminuiti. Ma questo è stato pagato con la discesa del sipario sulle condizioni disastrose di un popolo di più di due milioni di gazawi le cui case, i cui ospedali, le cui moschee sono stati sistematicamente rasi al suolo dall’esercito israeliano e che continua a dipendere dall’arbitrio mutevole dei suoi oppressori per quanto riguarda l’apertura o meno dei valichi attraverso cui dovrebbero arrivare i rifornimenti di viveri.
Per due anni sono stati trattati come un gregge di bestie da Israele, che li ha deportati da un luogo all’altro a suo piacimento, sradicandoli dai luoghi dove vivevano e privandoli di ogni punto di riferimento. Ora sono abbandonati, ancora come bestie, nello spaventoso non-luogo a cui Gaza è stata ridotta.
La tragedia è ora ulteriormente accentuata dalle condizioni atmosferiche e dalle alluvioni. Uomini, donne, bambini guazzano nel fango, sotto tendoni improvvisati, alla ricerca di qualcosa da mangiare, nella speranza che Netanyahu decida di riaprire i valichi. E l’inverno si avvicina sempre di più.
Di tutto questo nessuno risponde. Un giornalista italiano che si è azzardato a chiedere in una conferenza stampa se Israele non debba risarcire i danni causati in questi due anni è stato licenziato dall’agenzia di stampa per cui lavorava. Ciò che è accaduto in questi due anni, di cui il disastro attuale è il risultato, viene ormai cancellato, rimosso. Il radioso futuro aperto con la pace maschera il disastro del presente.
Ma in realtà anche il futuro è estremamente incerto. Per colpa di Hamas, che rifiuta di consegnare le armi, ma anche perché la prospettiva del famoso Stato palestinese, a cui sia il piano Trump che la risoluzione dell’ONU accennano in modo molto vago e ipotetico, è irremovibilmente esclusa dal governo israeliano, che precisa di non essere disposto, su questo punto, a cedere a nessuna pressione. Come ha chiarito recentemente Netanyahu: «La nostra opposizione a uno Stato palestinese in qualsiasi territorio non è cambiata. Gaza verrà smobilitata e Hamas disarmata, nel modo più facile o nel modo più difficile. Non ho bisogno di rinforzi, tweet o prediche da nessuno».
E il comportamento dell’esercito israeliano, in queste settimane di «pace», rimane quello di un’occupazione militare e conferma uno stile di violenza sistematica verso un popolo che non viene trattato come un possibile partner, ma come un vinto a cui non è riconosciuta alcuna dignità umana.
Il silenzio sulla Cisgiordania
A rendere ulteriormente problematico il miraggio del futuro Stato palestinese è la situazione nella West Bank, quella Cisgiordania che secondo la risoluzione dell’ONU del 1947 dovrebbe costituire insieme a Gaza il territorio di quello Stato.