28 novembre 2024

Difendi la Corte Penale Internazionale Contro il dominio dell’illegalità, dell’arbitrio e dell’impunità Noi siamo dalla parte del Diritto e dei Diritti. E tu?

 Documento dell'Università di Padova - Centro di Ateneo per i Diritti Umani Antonio Papisca" redatto a cura del Prof. Marco Mascia.

La Corte Penale Internazionale (CPI) è una pietra miliare della costruzione di un mondo più giusto, pacifico e democratico. Uno strumento di giustizia internazionale che trova il suo fondamento giuridico nella Carta delle Nazioni Unite e nelle Convenzioni internazionali sui diritti umani.

La sua istituzione rappresenta il più straordinario e rivoluzionario avanzamento nella civiltà del diritto internazionale. Il suo Statuto –detto anche “Statuto di Roma”- è stato adottato a Roma, il 17 luglio 1998, al termine della "Conferenza Diplomatica sulla Istituzione di una Corte Penale Internazionale" (15 giugno – 17 luglio 1998) ed entrato in vigore il 1 luglio 2002.


Documento completo   Difendi la Corte Penale Internazionale


19 novembre 2024

Israele. Coloni oltre la democrazia - «Non ci sono esseri umani non coinvolti, a Gaza – dice – nemmeno i bambini: avete un mese per portarveli via tutti, passato quel mese li ammazziamo e restiamo noi a vivere sulla nostra terra da soli, finalmente».

 

Foto di un insediamento israeliano

«Non ci sono esseri umani non coinvolti, a Gaza – dice – nemmeno i bambini. E se mi chiedi la mia, bene, io direi a tutta la comunità internazionale: avete un mese per portarveli via tutti, passato quel mese li ammazziamo e restiamo noi a vivere sulla nostra terra da soli, finalmente».

FRANCESCA MANNOCCHI "La Stampa" 18 novembre 2024


Yehuda Shimon è un avvocato ma sostiene di non credere ad altra legge se non quella di Dio. Non crede alla legge degli uomini nel suo paese, Israele, e non crede al diritto internazionale. Oltre a non credere alla legge, Yehuda Shimon non crede nemmeno alla democrazia. Pensa che se ci fosse una vera democrazia in Israele, la gente lascerebbe fare a Netanyahu ciò di cui c’è bisogno, senza le proteste di piazza e senza gli impedimenti che la legge mette ai coloni come lui. Per queste ragioni Yehuda Shimon invece di votare, prega: «Il Messia non ha bisogno di cento persone in un parlamento, la democrazia è uno scherzo».

Il Messia non ha bisogno della democrazia ma i coloni hanno bisogno di sostegno politico e questo governo, come mai nessuno prima, ha aperto la strada all’annessione dei territori palestinesi da parte dei coloni: «non crediamo alla politica, ma la politica ci serve», dice Shimon, che chiama il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir per nome, che mostra le fotografie della sua famiglia in compagnia del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e che sorride soddisfatto di fronte a un messaggio che lo informa che la ministra degli Insediamenti Orit Strook, anche lei esponente di Sionismo Religioso, entrerà a far parte del gabinetto di guerra.

Strook, che nel luglio scorso aveva definito gli ultimi mesi un «miracolo» per la veloce espansione degli insediamenti, «un momento miracoloso come quando sei fermo a un semaforo e senti beep, beep. E poi c’è il verde e metti il turbo». Dove il semaforo è la legge e il turbo è l’allargamento senza freni degli insediamenti illegali. Anche per l’avvocato Yehuda Shimon il semaforo rosso è la legge e un pezzo della luce verde è l’elezione di Donal Trump. «Prego Dio che lo benedica, che Trump ci sostenga e continui a favorire la nostra idea di Israele, come ha già fatto». Le recenti nomine lasciano pensare che sia così. Soprattutto quella dell’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, che ha detto: «non esiste la Cisgiordania. Esistono Giudea e Samaria. Non esistono gli insediamenti. Sono comunità. Sono quartieri. Sono città. Non esiste
l’occupazione».

12 novembre 2024

Il 45% degli ebrei israeliani preferisce la guerra alla pace. E i palestinesi?

 

La Cupola della Roccia di Gerusalemme, vista dal lato palestinese del Muro. Ciò che l’opinione pubblica israeliana vede come il “massacro del 7 ottobre” appare molto diverso agli occhi dei palestinesi. Alex Levac

di Dani Bar On,

Haaretz, 9 novembre 2024.   

Le indagini condotte in Israele, Cisgiordania e Gaza offrono spiragli di speranza, tra molti motivi di disperazione.

Ci sono alcune frasi in Israele che, quando vengono pronunciate, creano un senso di jamais vu, l’opposto del déjà vu, ossia un’esperienza in cui qualcosa di familiare appare strano, come una cosa mai vista. Frasi come “negoziati di pace”, “due stati per due popoli” o “colloqui diretti” generano questa sensazione. Oggi le storie di alieni extraterrestri sembrano più probabili di queste frasi. Infatti, secondo un sondaggio su larga scala pubblicato lo scorso settembre, il 68% degli ebrei israeliani si oppone alla soluzione dei due stati, mentre solo il 21% è favorevole – il punto più basso da decenni. Inoltre, il 42% (!) di questi ebrei sostiene la creazione di un unico stato a supremazia ebraica tra il fiume Giordano e il mare.

Si potrebbe pensare che, con una guerra sanguinosa che si trascina, anche i palestinesi ne abbiano abbastanza degli israeliani e che, di conseguenza, anche il loro sostegno a due stati indipendenti sia diminuito, a scapito della visione di un unico stato palestinese – caro agli occhi di tanti manifestanti nei campus statunitensi.

Eppure sembra che sia vero il contrario. Secondo lo stesso sondaggio – condotto lo scorso luglio dai dottori Nimrod Rosler e Alon Yakter, entrambi dell’Università di Tel Aviv, dalla dottoressa Dahlia Scheindlin e dal ricercatore palestinese Khalil Shikaki del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) – il 40% dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est sostiene la soluzione dei due stati. Tra loro c’è stato addirittura un aumento significativo del sostegno a questa soluzione da prima della cosiddetta guerra del 7 ottobre, mentre tra gli ebrei israeliani c’è stato un calo.

I palestinesi preferiscono questo tipo di soluzione rispetto all’alternativa di uno stato dominato dai palestinesi tra il Giordano e il mare (33%) o di un unico stato democratico per ebrei e arabi (25%). Quando Shikaki ha posto la domanda a settembre, senza menzionare Israele – in altre parole, ha chiesto ai palestinesi dei Territori se sarebbero d’accordo ad accontentarsi di uno stato nei territori occupati da Israele in Cisgiordania e a Gaza – il sostegno è salito al 59%. Un altro sondaggio, condotto dall’Istituto per il progresso sociale ed economico (ISEP) con sede a Ramallah, ha rilevato un sostegno ancora più alto: 62% in Cisgiordania, 83% nella Striscia.

Gli israeliani che credono ancora nell’idea dei due stati rischiano di disperarsi se considerano le variabili dell’età e dell’appartenenza religiosa che influenzano le risposte dell’intero pubblico ebraico: Mentre tra gli ebrei israeliani di età superiore ai 55 anni il sostegno alla soluzione dei due stati è del 39%, tra quelli della fascia di età compresa tra i 18 e i 34 anni è dell’8%, mentre scende al 3% tra gli ebrei ortodossi e all’1% tra gli ultraortodossi.

Un unico raggio di luce è emerso quando la domanda è stata posta in modo più ampio. “Se la scelta è tra una guerra regionale che includa Israele, l’Autorità Palestinese, il Libano, lo Yemen e forse l’Iran, oppure un accordo di pace regionale che includa un accordo palestinese-israeliano basato sulla soluzione dei due stati e sulla normalizzazione arabo-israeliana”, il sondaggio ha chiesto, “qual è la sua preferenza?”.

Tra i palestinesi, il 65% ha risposto che preferirebbe la pace regionale alla guerra regionale – con una minima discrepanza, su questa domanda, tra i palestinesi della Cisgiordania e quelli di Gaza. Per quanto riguarda gli arabi di Israele, l’89% degli intervistati ha optato per l’alternativa della pace regionale. Tra gli ebrei in Israele, la pace ha vinto ai punti sulla guerra, ma non per ko: 55% contro 45%.

Un risultato simile è stato ottenuto in un sondaggio condotto all’inizio di ottobre dall’istituto di ricerca Agam Labs, diretto dallo psicologo politico Nimrod Nir dell’Università Ebraica. Alla richiesta di esprimere una preferenza per uno stato palestinese smilitarizzato, con un cosiddetto governo moderato e la supervisione di altri stati arabi, o per l’annessione della Striscia di Gaza, il 55% degli ebrei israeliani ha scelto uno stato palestinese smilitarizzato, contro il 45% che ha preferito l’annessione. Buona notizia per coloro che sono in grado di concentrarsi sul bicchiere pieno del 55%.

Allo stesso tempo, l’avversione alla soluzione dei due stati non significa che gli israeliani vogliano che la guerra continui ad ogni costo. Anche un mediocre esperto nel campo dei sondaggi sa che il modo in cui vengono formulate le domande può esercitare un’influenza cruciale sulle risposte. Nello stesso sondaggio, quando Nir ha chiesto agli intervistati di scegliere tra la continuazione della guerra nel sud pagando il prezzo della morte della maggior parte degli ostaggi, o la cessazione della guerra in cambio del loro rilascio, il 75% della popolazione araba di Israele e il 72% della popolazione ebraica si sono espressi a favore della fine della guerra. Non si tratta di un risultato eccezionale: I sondaggi dell’Agam hanno mostrato una maggioranza della popolazione ebraica favorevole alla fine della guerra almeno da marzo.

Torniamo alla questione dei due stati. Il politologo Colin Irwin dell’Università di Liverpool, che ha contribuito alla risoluzione di numerosi conflitti in tutto il mondo, è ben lontano dal pensare che la situazione sia ormai una causa persa. “I sondaggisti che non hanno lavorato durante i processi di pace non ne comprendono il funzionamento”, spiega Irwin. “Nei negoziati reali, una scala binaria non ha alcun valore”.

Si dovrebbe invece chiedere agli intervistati di dare un voto alla loro opinione su una scala, cioè di decidere se la soluzione proposta è “necessaria” a loro avviso, “desiderabile ma non necessaria”, “non particolarmente desiderabile ma accettabile”, “non desiderabile ma con cui si può convivere” – o “decisamente inaccettabile”. Lo scorso maggio, quando Irwin ha posto una domanda simile agli israeliani, sia ebrei che arabi, tramite la sondaggista israeliana Mina Tzemach, il 43% ha risposto che dal loro punto di vista la soluzione dei due stati è “decisamente inaccettabile”. Irwin ritiene che si tratti di un dato incoraggiante, visto che è stato ottenuto in tempo di guerra, e aggiunge trionfalmente che questa percentuale è inferiore a quella dei protestanti (52%) che nel 1998 si opponevano fermamente a un accordo di condivisione del potere in Irlanda del Nord, prima che venisse firmato l’accordo del Venerdì Santo.

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04 novembre 2024

Sterminare, espellere, reinsediarsi: la partita finale di Israele nel nord di Gaza

 


di Idan Landau,  +972 Magazine, 1 novembre 2024. 

Il dibattito sui dettagli del ‘Piano dei Generali’ distrae dalla vera brutalità dell’ultima operazione di Israele, che ha abbandonato la facciata delle considerazioni umanitarie e sta gettando le basi per gli insediamenti.

Guardate le due foto seguenti, scattate entrambe il 21 ottobre 2024. A destra, vediamo una lunga fila di sfollati – o, più precisamente, di donne e bambini – nelle rovine del campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza. Gli uomini di età superiore ai 16 anni sono separati, sventolano una bandiera bianca e tengono in mano le loro carte d’identità. Stanno per uscire. 

Sterminare, espellere, reinsediarsi: la partita finale di Israele nel nord di Gaza

Per approfondire:

La task force israeliana che deporta attivisti stranieri dalla Cisgiordania

Come Netanyahu ha sfruttato i falsi ‘documenti di Hamas’ venuti alla luce mentre le proteste per gli ostaggi stavano aumentando

Una famiglia palestinese va a raccogliere olive. Finisce con un’esecuzione da parte dei soldati israeliani

La rivista scientifica medica ‘The Lancet’ pubblica due interventi sulla sanità a Gaza

Centro addestrativo per i piloti elicotteri da guerra in Liguria. A realizzarlo l’israeliana Elbit Systems