Documento dell'Università di Padova -
Centro di Ateneo per i Diritti Umani Antonio Papisca" redatto a cura del
Prof. Marco Mascia.
La Corte Penale Internazionale (CPI) è una pietra miliare della costruzione di un mondo più giusto, pacifico e democratico. Uno strumento di giustizia internazionale che trova il suo fondamento giuridico nella Carta delle Nazioni Unite e nelle Convenzioni internazionali sui diritti umani.
La sua istituzione rappresenta il più straordinario e rivoluzionario avanzamento nella civiltà del diritto internazionale. Il suo Statuto –detto anche “Statuto di Roma”- è stato adottato a Roma, il 17 luglio 1998, al termine della "Conferenza Diplomatica sulla Istituzione di una Corte Penale Internazionale" (15 giugno – 17 luglio 1998) ed entrato in vigore il 1 luglio 2002.
«Non ci sono esseri umani non coinvolti, a Gaza – dice – nemmeno i bambini. E se mi chiedi la mia, bene, io direi a tutta la comunità internazionale: avete un mese per portarveli via tutti, passato quel mese li ammazziamo e restiamo noi a vivere sulla nostra terra da soli, finalmente».
FRANCESCA
MANNOCCHI "La Stampa" 18 novembre 2024 Yehuda Shimon è un avvocato ma sostiene di non credere ad altra legge se non quella di Dio. Non crede alla legge degli uomini nel suo paese, Israele, e non crede al diritto internazionale. Oltre a non credere alla legge, Yehuda Shimon non crede nemmeno alla democrazia. Pensa che se ci fosse una vera democrazia in Israele, la gente lascerebbe fare a Netanyahu ciò di cui c’è bisogno, senza le proteste di piazza e senza gli impedimenti che la legge mette ai coloni come lui. Per queste ragioni Yehuda Shimon invece di votare, prega: «Il Messia non ha bisogno di cento persone in un parlamento, la democrazia è uno scherzo».
Il Messia non ha bisogno della democrazia ma i coloni hanno bisogno di sostegno politico e questo governo, come mai nessuno prima, ha aperto la strada all’annessione dei territori palestinesi da parte dei coloni: «non crediamo alla politica, ma la politica ci serve», dice Shimon, che chiama il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir per nome, che mostra le fotografie della sua famiglia in compagnia del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e che sorride soddisfatto di fronte a un messaggio che lo informa che la ministra degli Insediamenti Orit Strook, anche lei esponente di Sionismo Religioso, entrerà a far parte del gabinetto di guerra.
Strook, che nel luglio scorso aveva definito gli ultimi mesi un «miracolo» per la veloce espansione degli insediamenti, «un momento miracoloso come quando sei fermo a un semaforo e senti beep, beep. E poi c’è il verde e metti il turbo». Dove il semaforo è la legge e il turbo è l’allargamento senza freni degli insediamenti illegali. Anche per l’avvocato Yehuda Shimon il semaforo rosso è la legge e un pezzo della luce verde è l’elezione di Donal Trump. «Prego Dio che lo benedica, che Trump ci sostenga e continui a favorire la nostra idea di Israele, come ha già fatto». Le recenti nomine lasciano pensare che sia così. Soprattutto quella dell’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, che ha detto: «non esiste la Cisgiordania. Esistono Giudea e Samaria. Non esistono gli insediamenti. Sono comunità. Sono quartieri. Sono città. Non esiste
La Cupola della Roccia di Gerusalemme, vista dal lato palestinese del Muro. Ciò che l’opinione pubblica israeliana vede come il “massacro del 7 ottobre” appare molto diverso agli occhi dei palestinesi. Alex Levac
Le indagini condotte in Israele, Cisgiordania e Gaza offrono spiragli di speranza, tra molti motivi di disperazione.
Ci sono alcune frasi in Israele che, quando vengono pronunciate, creano un senso di jamais vu, l’opposto del déjà vu,
ossia un’esperienza in cui qualcosa di familiare appare strano, come
una cosa mai vista. Frasi come “negoziati di pace”, “due stati per due
popoli” o “colloqui diretti” generano questa sensazione. Oggi le storie
di alieni extraterrestri sembrano più probabili di queste frasi.
Infatti, secondo un sondaggio su larga scala pubblicato lo scorso
settembre, il 68% degli ebrei israeliani si oppone alla soluzione dei
due stati, mentre solo il 21% è favorevole – il punto più basso da
decenni. Inoltre, il 42% (!) di questi ebrei sostiene la creazione di un
unico stato a supremazia ebraica tra il fiume Giordano e il mare.
Si potrebbe pensare che, con una guerra
sanguinosa che si trascina, anche i palestinesi ne abbiano abbastanza
degli israeliani e che, di conseguenza, anche il loro sostegno a due
stati indipendenti sia diminuito, a scapito della visione di un unico
stato palestinese – caro agli occhi di tanti manifestanti nei campus
statunitensi.
Eppure sembra che sia vero il contrario. Secondo lo stesso sondaggio –
condotto lo scorso luglio dai dottori Nimrod Rosler e Alon Yakter,
entrambi dell’Università di Tel Aviv, dalla dottoressa Dahlia Scheindlin
e dal ricercatore palestinese Khalil Shikaki del Palestinian Center for
Policy and Survey Research (PSR) – il 40% dei palestinesi che vivono in
Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est sostiene la soluzione dei due stati.
Tra loro c’è stato addirittura un aumento significativo del sostegno a
questa soluzione da prima della cosiddetta guerra del 7 ottobre, mentre
tra gli ebrei israeliani c’è stato un calo.
I palestinesi preferiscono questo tipo di soluzione rispetto
all’alternativa di uno stato dominato dai palestinesi tra il Giordano e
il mare (33%) o di un unico stato democratico per ebrei e arabi (25%).
Quando Shikaki ha posto la domanda a settembre, senza menzionare Israele
– in altre parole, ha chiesto ai palestinesi dei Territori se sarebbero
d’accordo ad accontentarsi di uno stato nei territori occupati da
Israele in Cisgiordania e a Gaza – il sostegno è salito al 59%. Un altro
sondaggio, condotto dall’Istituto per il progresso sociale ed economico
(ISEP) con sede a Ramallah, ha rilevato un sostegno ancora più alto:
62% in Cisgiordania, 83% nella Striscia.
Gli israeliani che credono ancora nell’idea dei due stati rischiano
di disperarsi se considerano le variabili dell’età e dell’appartenenza
religiosa che influenzano le risposte dell’intero pubblico ebraico:
Mentre tra gli ebrei israeliani di età superiore ai 55 anni il sostegno
alla soluzione dei due stati è del 39%, tra quelli della fascia di età
compresa tra i 18 e i 34 anni è dell’8%, mentre scende al 3% tra gli
ebrei ortodossi e all’1% tra gli ultraortodossi.
Un unico raggio di luce è emerso quando la domanda è stata posta in
modo più ampio. “Se la scelta è tra una guerra regionale che includa
Israele, l’Autorità Palestinese, il Libano, lo Yemen e forse l’Iran,
oppure un accordo di pace regionale che includa un accordo
palestinese-israeliano basato sulla soluzione dei due stati e sulla
normalizzazione arabo-israeliana”, il sondaggio ha chiesto, “qual è la
sua preferenza?”.
Tra i palestinesi, il 65% ha risposto che preferirebbe la pace
regionale alla guerra regionale – con una minima discrepanza, su questa
domanda, tra i palestinesi della Cisgiordania e quelli di Gaza. Per
quanto riguarda gli arabi di Israele, l’89% degli intervistati ha optato
per l’alternativa della pace regionale. Tra gli ebrei in Israele, la
pace ha vinto ai punti sulla guerra, ma non per ko: 55% contro 45%.
Un risultato simile è stato ottenuto in un sondaggio condotto
all’inizio di ottobre dall’istituto di ricerca Agam Labs, diretto dallo
psicologo politico Nimrod Nir dell’Università Ebraica. Alla richiesta di
esprimere una preferenza per uno stato palestinese smilitarizzato, con
un cosiddetto governo moderato e la supervisione di altri stati arabi, o
per l’annessione della Striscia di Gaza, il 55% degli ebrei israeliani
ha scelto uno stato palestinese smilitarizzato, contro il 45% che ha
preferito l’annessione. Buona notizia per coloro che sono in grado di
concentrarsi sul bicchiere pieno del 55%.
Allo stesso tempo, l’avversione alla soluzione dei due stati non
significa che gli israeliani vogliano che la guerra continui ad ogni
costo. Anche un mediocre esperto nel campo dei sondaggi sa che il modo
in cui vengono formulate le domande può esercitare un’influenza cruciale
sulle risposte. Nello stesso sondaggio, quando Nir ha chiesto agli
intervistati di scegliere tra la continuazione della guerra nel sud
pagando il prezzo della morte della maggior parte degli ostaggi, o la
cessazione della guerra in cambio del loro rilascio, il 75% della
popolazione araba di Israele e il 72% della popolazione ebraica si sono
espressi a favore della fine della guerra. Non si tratta di un risultato
eccezionale: I sondaggi dell’Agam hanno mostrato una maggioranza della
popolazione ebraica favorevole alla fine della guerra almeno da marzo.
Torniamo alla questione dei due stati. Il politologo Colin Irwin
dell’Università di Liverpool, che ha contribuito alla risoluzione di
numerosi conflitti in tutto il mondo, è ben lontano dal pensare che la
situazione sia ormai una causa persa. “I sondaggisti che non hanno
lavorato durante i processi di pace non ne comprendono il
funzionamento”, spiega Irwin. “Nei negoziati reali, una scala binaria
non ha alcun valore”.
Si dovrebbe invece chiedere agli intervistati di dare un voto alla
loro opinione su una scala, cioè di decidere se la soluzione proposta è
“necessaria” a loro avviso, “desiderabile ma non necessaria”, “non
particolarmente desiderabile ma accettabile”, “non desiderabile ma con
cui si può convivere” – o “decisamente inaccettabile”. Lo scorso maggio,
quando Irwin ha posto una domanda simile agli israeliani, sia ebrei che
arabi, tramite la sondaggista israeliana Mina Tzemach, il 43% ha
risposto che dal loro punto di vista la soluzione dei due stati è
“decisamente inaccettabile”. Irwin ritiene che si tratti di un dato
incoraggiante, visto che è stato ottenuto in tempo di guerra, e aggiunge
trionfalmente che questa percentuale è inferiore a quella dei
protestanti (52%) che nel 1998 si opponevano fermamente a un accordo di
condivisione del potere in Irlanda del Nord, prima che venisse firmato
l’accordo del Venerdì Santo.
Il dibattito sui dettagli del ‘Piano dei Generali’
distrae dalla vera brutalità dell’ultima operazione di Israele, che ha
abbandonato la facciata delle considerazioni umanitarie e sta gettando
le basi per gli insediamenti.
Guardate le due foto seguenti, scattate entrambe il 21 ottobre 2024. A
destra, vediamo una lunga fila di sfollati – o, più precisamente, di
donne e bambini – nelle rovine del campo profughi di Jabalia, nel nord
della Striscia di Gaza. Gli uomini di età superiore ai 16 anni sono
separati, sventolano una bandiera bianca e tengono in mano le loro carte
d’identità. Stanno per uscire.