FRANCESCA MANNOCCHI
Yad Mordechai, confine con Gaza
È metà pomeriggio quando Yosef de Bresser, 22 anni, riempie una tanica d’acqua e guida verso il valico di Erez, al confine con la Striscia di Gaza. Scende dall’auto, raccoglie dei sassi che pone intorno a due piante, poi impugna la tanica e versa l’acqua tutto intorno. Su uno dei due alberi è legata la bandiera israeliana. Li ha piantati la settimana scorsa, dopo che per la seconda volta l’avamposto illegale che vuole fondare è stato smantellato. È arrivato lì, al confine, con due alberi, come a dire “torneremo”. È per questo che l’avamposto che sta costruendo si chiama Elei Aza, ovvero Verso Gaza. Come a dire: “stiamo tornando”.
Dopo aver svuotato la tanica Yosef si avvicina ai soldati di stanza al confine. L’area è circondata dalle loro bandiere, sul muro intorno alla base il loro nome Netzah Yehuda. Sono amichevoli gli uni con gli altri. In lontananza l’eco dell’artiglieria israeliana che mira a Gaza. “Bum Bum Bum”, mimano tutti, ridendo al frastuono delle armi. Yosef de Bresser spiega ai soldati dove hanno spostato l’avamposto, per ricostruirlo ancora, vicino l’entrata della foresta di Yad Mordechai.
Gaza da lì non solo dista due chilometri, ma si vede. I soldati li incoraggiano, «verremo a trovarvi – dicono loro – andate avanti». Non si capisce dove finiscano i coloni e dove inizino i soldati di Netzah Yehuda. Gli estremisti nell’esercito Netzah Yehuda è una divisione ultra-ortodossa dell’esercito israeliano. È stata creata nel 1999 come unità di combattimento composta esclusivamente da uomini con l’obiettivo di integrare nei ranghi dell’esercito la comunità ultra-ortodossa, gli Haredim, tradizionalmente esentati dalla coscrizione. Le reclute provengono in gran parte da contesti svantaggiati, poveri ed emarginati, molti di loro sono i “giovani delle colline”, cioè i coloni di seconda generazione nati e cresciuti negli avamposti illegali sui territori palestinesi occupati della Cisgiordania.
Non è un caso che il motto di Netzah Yehuda sia: v’haya machanecha kadosh (e il tuo accampamento sarà sacro), una citazione della Torah, che viene presa alla lettera dai soldati del battaglione per lasciare intendere che la loro sia “una missione sacra”. Un modo per giustificare, come secondo passaggio, la cultura di una sfrenata violenza contro le popolazioni non ebraiche, tanto da essere accusati dagli Stati Uniti di gravi violazioni dei diritti umani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata ben prima del 7 ottobre. Violazioni che hanno fatto sì che gli Stati Uniti, ad aprile, minacciassero Israele di imporre sanzioni sull’unità e i suoi membri.
Per gli Stati Uniti fu importante, in particolare, un fatto risalente al 2022. Omar Assad, 80 anni, palestinese-americano, morì dopo che i soldati di Netzah Yehuda l’avevano trattenuto con la forza e lasciato tutta la notte al freddo in un cantiere edile che fungeva da checkpoint improvvisato in Cisgiordania.
Alla fine del 2022, Netzah Yehuda, che era di stanza nella Cisgiordania occupata, è stata riassegnata alle alture del Golan controllate da Israele. Il portavoce dell’esercito disse che si trattava di un dispiegamento operativo, ma il segretario di Stato americano Blinken ha scritto che si trattava di un riconoscimento del fatto che il battaglione aveva «adottato una condotta incoerente con le regole dell’esercito israeliano». La condotta dell’unità era cioè troppo violenta e abusante per i canoni dell’esercito. Che sapeva. E tuttavia questi dati non hanno impedito che i soldati di Netzah Yehuda venissero spostati a Gaza, dove combattono dall’inizio della guerra.
Molti membri, secondo una recente inchiesta della Cnn, sono stati promossi a posizioni di rilievo nelle Forze armate e ora sono attivi nell’addestramento delle truppe di terra israeliane e nella gestione delle operazioni a Gaza. Il 16 aprile Netzah Yehuda è stata coinvolta in un’operazione presso la scuola Mahdiyya Al-Shawwa a Beit Hanoun, nel Nord della Striscia, dove erano sfollati migliaia di palestinesi. Secondo testimoni oculari che hanno parlato con la Cnn, i soldati hanno circondato la scuola, «hanno sparato eccessivamente» sul complesso e hanno costretto gli uomini a spogliarsi nudi prima di arrestarli. Un’unità, dunque, che agisce più come una milizia indipendente che come un pezzo del comando centrale.
Quando Yosef de Bresser si congeda dai soldati, a Erez, si volta e dice: «Sono con noi. Anche se ogni tanto devono fingere di andarci contro. Capiscono perché siamo qui, siamo qui per le stesse loro ragioni. Fuori gli arabi da Gaza. Gaza torni agli unici a cui spetta di diritto, gli ebrei».
Elei Aza, Verso Gaza Yosef de Bresser è un “giovane delle colline”, come molti dei soldati di Netzah Yehuda. Nato e cresciuto a Yitzhar, un insediamento in Cisgiordania noto per la sua violenza contro i vicini palestinesi, è già stato arrestato una ventina di volte. Sulla schiena ha tatuata la mappa di Israele con una stella di David che la copre interamente, come a dire: è a noi, agli ebrei, che spetta tutta la terra. Sul lato destro del collo, invece, ha un pugno alzato contro una stella di David blu, simbolo della Jewish Defense League, gruppo fondato negli Stati Uniti dal rabbino estremista religioso Meir Kahane e designato dagli stessi Stati Uniti come organizzazione terroristica. Quei tatuaggi lo rappresentano esattamente come le azioni che compie da mesi. A febbraio ha bloccato per giorni l’accesso degli aiuti umanitari al valico di Kerem Shalom – «non devono avere niente, né acqua, né cibo, né carburante», disse a La Stampa allora e ripete con più forza oggi. Chi fornisce aiuti, per lui, è complice dei terroristi. E nessuno, dentro Gaza, merita di essere salvato.
All’inizio di luglio de Bresser e i suoi amici, “giovani delle colline” ma anche residenti dei kibbutzim che confinano con Gaza, hanno cominciato a costruire un avamposto. Qualche tenda, un frigo, qualche generatore di corrente, sedie di plastica, le valigie con gli abiti e le coperte, e i giochi per i bambini. Per il resto le pale per scavare lo spazio per le condutture dell’acqua e gli attrezzi per tirare su le case di legno che sostituiranno le tende. Il surrogato di un insediamento che, per quanto embrionale, grida forte le intenzioni degli attivisti religiosi di estrema destra. Evacuato con la forza due volte e due volte ricostruito, perché, come spiega de Bresser, dopo la prima evacuazione i membri del gruppo sono stati convocati dalle forze dell’ordine che hanno indicato loro un nuovo posto dove stabilirsi.
Oggi a viverci sono in venti, si ispirano al kahanismo e ai coloni radicali della Cisgiordania. La settimana scorsa 14 di loro hanno provato a violare il confine con la Striscia. Volevano pregare dentro Gaza nel 19esimo anniversario del “disimpegno”, cioè lo smantellamento degli insediamenti ebraici da Gaza. Sette sono stati arrestati. Tra loro, de Bresser. «Era la nostra preghiera, shacharit. Abbiamo il diritto di pregare nella nostra terra, perché questo è Gaza. Gli arabi non capiscono la lingua della morte, capiscono solo una lingua, quella della terra. E gliela toglieremo. Perché lo meritano e perché ci appartiene».
De Bresser è fiducioso che da lì nessuno li manderà via. Mentre parla a La Stampa si avvicina un’auto della polizia con le guardie della foresta. Sono gioviali, consegnano loro un foglio dicendo: «non dovreste stare qui!». E loro rispondono: «eppure possiamo». Ridono. De Bresser spiega alla polizia il progetto dell’avamposto, e poi la polizia se ne va. «Siamo qui perché al Paese serve sapere che c’è davvero qualcuno pronto a tornare. Siamo giovani, siamo tanti e saremo felici di riprendere ciò che è nostro».
Questo vogliono dire alla gente ma anche alla politica. A Smotrich, a Ben Gvir, da sempre favorevoli al ritorno degli insediamenti a Gaza. Un modo per dire loro che non basta l’appoggio morale, servono i soldi. Mentre Yosef de Bresser costruisce Elei Aza, Geffen, 32 anni, si prende cura dei bambini. Era una giovane insegnante di asilo, ha due figli di cinque e tre anni e aspetta il terzo. Nascerà a novembre e spera che per allora nell’avamposto siano finite le case di legno e ci sia modo di scaldarsi. Ha lasciato l’insegnamento perché ritiene ingiusto che sia lo Stato a decidere cosa possa essere o no insegnato ai bambini. Vuole, come le altre donne che conosce e che come lei vivono negli avamposti, insegnare da sola ai suoi figli gli unici valori che contano. «Quello che vorrei, per il futuro dei miei figli, è che non debbano più mescolarsi con altra gente. Gli arabi da Gaza se ne devono andare».
Geffen pensa che il governo sia troppo incerto, l’azione militare timida e che non ci sia motivo di frenare le azioni dei soldati. Pensa che la condotta del governo rafforzi Hamas anziché indebolirlo perché, dice, «tutto questo discutere di accordi farà credere ad Hamas che possono ottenere quello che vogliono». Pensa che per gli arabi tutti, perdere la vita non conti nulla. L’unica cosa che conta, per loro, è perdere la terra. Per questo, dice, è inutile discutere della conta dei morti. Diecimila, ventimila, quarantamila. Epidemie, malattie. Sono solo numeri. L’unica cosa su cui bisogna discutere è come togliere loro tutta la terra che gli è rimasta, il più velocemente possibile.
in “La Stampa” del 21 agosto 2024