31 agosto 2009

Pellegrinaggi di giustizia (terza parte)


(nel video: Donna palestinese e ambulanza fermate al check point)

Check point: controllo o umiliazione?

Da quando siamo arrivati in Terra Santa, la terra dove Gesù ha testimoniato con la sua vita la Buona Notizia di amore e libertà, paradossalmente, il muro ci ha accompagnato in ogni luogo. Da lontano, coronando le colline, come qualcosa di onnipresente ma intangibile, come una visione in un incubo, poi da vicino, purtroppo, toccandolo con le nostre mani nude a Qalqiliya, increduli di fronte alla sua altezza, lo abbiamo attraversato per spostarci non da uno stato all'altro, ma da una città all'altra.

Già, attraversato, noi sì che lo possiamo fare, perchè il passaporto italiano ci permette di andare ovunque, come cittadini del mondo, ma i palestinesi no, loro non possono, hanno bisogno di un permesso speciale, perchè essere palestinesi oggi equivale a “non essere liberi”.

Questo muro di divisione e di oppressione è intervallato da check points.
Check points....punti di controllo...ma è davvero questo il loro significato?
Lo può credere il turista che lo attraversa durante il giorno, quasi vuoto, con i militari israeliani che aprono ogni porta a chi viene dall'estero, gentili e sorridenti per far sembrare tutto come una normale prassi, come avviene al check-in all'aeroporto, all'insegna di una sicurezza per tutti.

Ma il dramma di tutto ciò, di quello che questo muro vuol dire, di quello che la sua costruzione ha causato e di quello che ogni giorno provoca nelle persone diventa evidente la mattina presto, fra le 4 e le 7, quando dai check points devono passare i lavoratori palestinesi che si recano nelle città israeliane per cercare di guadagnare abbastanza per sostenere le proprie famiglie, elemosinando lavoro dagli israeliani.

Lo vediamo coi nostri occhi, lo viviamo sulla nostra pelle...non ci potranno più essere informazioni manipolate o video passati velocemente in televisione che ci faranno credere altro.

Alle 4.30 arriviamo al check point fra Betlemme e Gerusalemme.

Ci sono già circa 1000 persone che aspettano perchè Betlemme, dopo la
costruzione del muro, ha subito un forte decremento del turismo e ora la disoccupazione è la più alta di tutta la West Bank, circa il 70%. Check point, punto di controllo… piuttosto lo chiamerei punto di ingiustizia e soprattutto di umiliazione.

Perchè è questo che avviene!

Qui non c'entra la posizione politica o l'ideologia. Si tratta del diritto dell'uomo ad essere trattato come tale...e qui tale diritto viene violato.

Lavoratori, uomini fra i 30 e i 60 anni, sono ammassati in due lunghi corridoi di larghezza di un metro, delimitati da sbarre verticali che ricordano quelle delle gabbie degli zoo, sdraiati per terra sui cartoni sui quali hanno dormito, seduti o in piedi.

Dormono, parlano, fumano… ma la cosa incredibile è che alcuni riescono a scherzare fra loro.
Già, perchè come mi racconta un uomo di 40 anni con 2 figli piccoli a casa,“noi siamo uomini e non capre e anche se ci trattano così noi cerchiamo di scherzare, se no moriamo”.

Ma perchè arrivano così presto?

La risposta è presto detta: ammassata con loro nella gabbia guardo l'orologio, sono le 5.30, e la piccola porticina nel muro che dovrebbe aprirsi alle 5 è ancora chiusa.

Sono migliaia di uomini, qualche donna, devono essere sul posto di lavoro alle 7, senza il muro ci impiegherebbero da casa un'ora al massimo, ma ora devono passare un cancello, un controllo del permesso, un tornello, un metal detector e un controllo del passaporto e… credete sia finita? No… anche il controllo delle impronte digitali! In Italia questo è il trattamento riservato ai delinquenti!

Ma forse tutto questo non è ancora la cosa peggiore. Per più di due ore tutte queste persone sono trattate in modo umiliante: il cancello non apre in orario? Perchè dare spiegazioni? Aspettate e basta! E senza lamentarvi, ovviamente, se no rischiate di non passare.

State passando dal tornello finalmente? Correndo e accalcandovi perché rischiate di arrivare in ritardo al lavoro? Ve lo blocchiamo improvvisamente… senza spiegazioni.. ovvio! Anche perchè le spiegazioni dovrebbero arrivare da dei ragazzini di 20 anni.

Già, ai check points ci sono i militari israeliani di leva, ragazzi e ragazze molto giovani, carnefici e vittime del muro.

Alcuni sono arroganti, trattano i palestinesi con disprezzo, come se fossero bestie, non rivolgendo loro la parola, parlandogli a gesti, non degnandoli neanche di uno sguardo, masticando pigramente chewing gum da dietro i vetri di separazione mentre osservano i permessi che con così tanta fatica loro si sono procurati o addirittura, le soldatesse, truccandosi in attesa di aprire i cancelli … tanto che fretta c'è?

Altri invece no.
Il muro è disumano anche per alcuni ragazzi israeliani. ”400 ragazzi di leva si sono suicidati nell'ultimo anno” ci raccontava giusto ieri sera il nostro amico palestinese Sami Basha. Quando finalmente questa via crucis dei lavoratori finisce e verso le 7 insieme a loro alcuni di noi riescono a passare tutti i controlli, crediamo sia finita. Ma non è così.

Credevamo di aver visto tutto il peggio, e invece tornando indietro verso Betlemme scopriamo che c'è ancora una lunga coda di chi aspetta di passare il check point verso Gerusalemme.

Un uomo ci racconta che questo gruppo si era diretto ad un altro check point, ma da lì non li hanno fatti passare e così sono dovuti correre qui.

Perchè? Non si sa, bisogna obbedire e basta ovviamente.



E allora, mentre il sole sta sorgendo su questa terra bellissima, nei nostri cuori restano emozioni contrastanti: una grande stima per la dignità che questi uomini hanno dimostrato per tutto il tempo, incredulità, tristezza, amarezza, forse qualche piccolo accenno di speranza.


Ma più fra tutte risuona una parola, incisa nei nostri cuori e sui volti dei palestinesi incontrati, semplice ma profondamente umana: perchè?


29 agosto 2009

Pellegrinaggi di giustizia (seconda parte)

Continuiamo la pubblicazione del reportage inviatoci dagli amici vicentini che hanno compiuto il viaggio in Palestina con Pax Christi.
3 agosto

“La pace non c'è perchè non la vogliono”. Con le parole pacate del patriarca emerito Michel Sabbah incomincia il nostro viaggio da Taybeh – l'Efraim del Vangelo – verso Ramallah.
Mentre aggiriamo le colline intorno a Gerusalemme, inseguiti dal muro e dai check-point è un canto ad accompagnarci, a interrogarci con le sue parole – “ci ha riportati liberi alla nostra terra” – speranza d'un popolo ancora nel mezzo del suo Esodo.
Esodo che assume volti, gusti, voci, vesti e musiche diverse.
Il gusto dell'acqua, di cui gli agronomi del PARC (Agricultural Development Association) ci raccontano la distribuzione in Terra Santa: 90% agli israeliani, 10% ai palestinesi.
La voce delle prigioni, di cui ci racconta l'avvocatessa Buthainah Dugmag del centro Mandela: si occupano di uomini e donne illegalmente detenuti (sono 9.600). Risponde alle nostre domande, molte volte puntuale – capiamo che la violazione del diritto è la norma – qualche volta prudente. Il suo lavoro nasce dalla sua storia personale: nel 1979, a Beirut, anche lei è stata in carcere, come molti dei suoi familiari: “In quegli anni, dice, “ho preso la mia decisione, che continua e continuerà fino a quando non ci saranno più prigionieri, e non ci saranno più prigionieri quando avremo la nostra terra”.
Le vesti cucite dalle donne del Centro pastorale melkita – dove ci guida Lina – che inventano stoffe e ricami, custodie rosse e blu per occhiali, telefonini, Bibbie.
Le note della scuola di musica “Al Kamandjati” (Il violinista), fondata da Ramsi, ragazzino che nell'87, a otto anni, scagliava pietre durante l'Intifadah, e ora, violinista affermato, strappa i ragazzi dai campi profughi e gli apre un futuro insegnando musica.
Ma l'Esodo ha soprattutto il volto e le parole del pastore, Abuna Manuel, che incontriamo a Bir Zeit, appena ritornato da Gaza, dove ha trascorso – ma bisognerebbe dire è stato imprigionato con il suo popolo – per 14 anni.
Gaza si materializza in mezzo a noi: nella fatica del pastore che deve predicare su carità, fede e speranza a chi non ha terra, né lavoro, né casa e neppure speranza.
Ci parla di Hamas; del viaggio del papa, della guerra dello scorso inverno. Delle case in polvere, della sua paura, dei bambini senza più gioia.
Ci fa ascoltare, dalla suoneria del suo telefonino, la preghiera che ha composto per Gaza e che un compositore ha messo in musica. E la musica resta dove le parole hanno fine, sale nel cielo di Bir Zeit dove la luna è già alta.
“Tu che sai strappare dalla morte / hai sollevato il nostro viso dalla polvere” cantavamo stamattina. E con questo canto il report si fa preghiera, e la preghiera Esodo verso una terra dove i sassi possono diventare violini, le pietre di rabbia note di pace, e il pianto di Gaza un canto di liberazione suonato da un telefonino.

4 agosto
Ci svegliamo presto. Giornata di sole profondo. Partiamo per la Galilea: colline, case, poche parole condite dal sonno. Galilea, verso Nord. Al check-point noi passiamo veloci; loro, ancora una volta, no... Deserto. Immagino Lui e ne cammino i passi. Oro nei campi bruciati dal sole. Palme, poi limoni e girasoli e da lontano il sogno del Giordano. Passiamo lungo il lago di Tiberiade: siamo in Israele.
Ci fermiamo dinanzi al kibbutz di Sasa e inconsapevolmente ripensiamo alla realtà palestinese, a quelle centinaia di migliaia di persone che hanno visto distruggere le loro case per far posto agli insediamenti dei coloni e ora vivono profughi nella loro terra.
Il viaggio è lungo in pullman per i nostri standard, ma questo ci permette di riposare e di chiacchierare poi gli uni con gli altri, raccontare le nostre impressioni, parlare delle nostre vite e delle nostre possibili vite.
Incontriamo a Bar-am vicino al confine con il Libano il prof. Geries Khury. Ci racconta del suo villaggio distrutto con la menzogna e la forza delle armi dall'esercito israeliano nel 1948, ci trasmette la forza della sconfitta, la voglia di restare, la perdita di fiducia, la resistenza non violenta, ci racconta del pianto della madre durato per più di quarant'anni, della voglia di vivere del suo popolo, del popolo palestinese che vuole tornare a casa, vivere nella propria casa e nella propria terra dove è nato e vissuto da secoli. Ogni anno la gente del villaggio organizza campi estivi nel villaggio distrutto, feste con giovani e anziani per non perderne la memoria, ora che è diventato un parco per fare i pic-nic. Cerca il dialogo che è liberazione se mente e cuore sono aperti nella e per la differenza dell'altro, ci dice. Ci lascia dopo aver pranzato nel suo villaggio consegnandoci questo monito: ”Noi palestinesi non cerchiamo gente pro Palestina o pro Israele ma pro Gesù, solo così si avrà realmente la Pace”.
Ci dirigiamo poi a Tabgha dove Gesù donò a Pietro il tempo per diventare immortale; c'è il lago di Tiberiade dove l'acqua e le scritture si incontrano, permettendoci di incontrarle noi stessi.
Alcuni si ascoltano dentro la chiesetta costruita su Quella Pietra, altri scelgono l'acqua, entrano e sognano ad occhi aperti. Non ce la facciamo a vedere Nazareth e Cafarnao. Vediamo qualcos'altro d'incredibile però che fa da specchio sulla luna quasi piena e la luce del tramonto il deserto della Giudea. Lì forse alcuni di noi hanno capito il perchè del proprio viaggio, in quel deserto deve averlo capito anche Gesù.
Siamo sulla via del ritorno per il secondo incontro con Abouna Raed, uomo e prete di grande coraggio e determinazione. Un uomo che non si ferma mai, questo è sicuro, produce, combina, scambia, raccoglie, semina, costruisce, che quasi la parabola del tempio sembra vera. “Tutto è possibile, niente è impossibile se c'è la fede, la provvidenza aiuta”, ci dice con un'energia che entra dentro di noi.
Molto non ricordo delle diecimila cose dette o fatte da Abouna Raed, ma a me ha dato speranza e forse anche un po' d'agitazione.
Ci mostra e ci spiega le parabole attraverso le mura del suo passato, ce le spiega con la capacità di un saltimbanco, sgattaiolando di qua e di là che è difficile stargli dietro. Lui è logico e convincente e per la prima volta vedo con i miei occhi dove può esser nato veramente Gesù, in un luogo simile, in un posto semplice della città di Betlemme. Ci parla della "quarta stanza", di quell'unica mezza stanza lasciata ai palestinesi della propria casa. Ci spiega saltellando come un grillo dalla sua poltrona che lui non vuole più sentir parlare di pace, ma di riconciliazione: il bisogno di trasformare il proprio nemico nel proprio amico! Gerusalemme è la chiave di tutto: tre nomi in tre religioni per due popoli aperta a tutti! A tutti noi capite? Per tutto il mondo, centro di tutto il mondo, finalmente libera.
Ci dà speranza ma anche ci racconta che la strada è quella dell'unità, del dire sì, del togliere quel muro ”di sicurezza” che troppo spesso anche noi vediamo e vendiamo in cambio della nostra dignità e della nostra verità. Molto altro ci ha raccontato con la voce e con tutto il suo corpo, ma vi lascio con una frase che lui ha citato nel nostro primo incontro a Taybeh: “la più grande avventura è la libertà della mente”, in ognuno di noi spero accada.
(continua)
------------------------------------------
(nelle immagini: la fuga dai villaggi nel 1948 e il mare di Tiberiade)

27 agosto 2009

Pellegrinaggi di giustizia (prima parte)

(nella foto: il muro a Qalqiliya)


Nei primi giorni di agosto un gruppo di persone hanno partecipato ad un viaggio in Palestina organizzato da Pax Christi. Tra loro alcuni vicentini, che ci hanno inviato questo reportage, in cui raccontano ciò che hanno visto e le proprie impressioni.

Lo pubblichiamo in più puntate, per facilitarne la lettura.

1 agosto

Partenza dall'aeroporto di Verona. Sei ancora in Italia, eppure inizi già a sentire il peso soffocante di una parola. Non di un apparato, né di un'organizzazione, ma di una parola: sicurezza. Israele è ossessionato dalla sicurezza: ogni cosa, ogni gesto, ogni azione sono pensate e fatte per la sicurezza.

A Verona ci mettiamo in fila per il check-in. Senza neanche accorgercene siamo circondati da alcuni uomini e alcune donne della sicurezza israeliana, che ci prendono in consegna e iniziano a tempestarci di domande (naturalmente, per la nostra sicurezza): Perchè vai in Israele? Cosa ti interessa d'Israele? Conosci gli altri del tuo gruppo? Da quanto tempo li conosci? Dove li hai conosciuti? Studi o lavori? Dove? Da quanto tempo? Chi ha preparato la valigia? Dove è stata la valigia da ieri sera fino ad oggi? Chi ti ha accompagnato all'aeroporto?

E fino a qui tutto ok, se non fosse che poi si ricomincia da capo: Perchè vai in Israele? Cosa ti interessa d'Israele? Conosci gli altri del tuo gruppo? Da quanto tempo li conosci? Dove li hai conosciuti? Studi o lavori? Dove? Da quanto tempo? Chi ha preparato la valigia? Ecc., ecc. ecc. Un vero e proprio interrogatorio, per alcuni del nostro gruppo.

Dopo un'ora tre di noi vengono gentilmente invitati nell'area internazionale, per un controllo più approfondito. Con la presenza di alcuni poliziotti italiani vengono perquisiti fisicamente, le borse aperte ed esaminate e le valigie trattenute all'aeroporto. Il motivo? Sicurezza: i bagagli verranno spediti il giorno dopo a Gerusalemme.

Finalmente riusciamo a partire e ad arrivare a Tel Aviv, dove un pullman ci carica e ci conduce fino ad Aboud, un villaggio dei Territori Occupati circondato da due insediamenti israeliani.

Il percorso durerebbe circa venti minuti, ma bisogna superare i check-point: in uno non ci lasciano passare, è troppo tardi, mentre nel secondo va meglio. L'autista è incerto sulla strada, perchè nella West bank non tutte le strade sono uguali: alcune vengono riservate esclusivamente agli israeliani, e solo se hai la targa giusta puoi transitarci sopra. Il motivo? Sicurezza.

Finalmente, dopo un lungo giro, arriviamo a destinazione, e veniamo ospitati nelle famiglie: anche se è molto tardi vogliono accoglierci con tutti gli onori, offrendoci tè, caffè, dolci e frutta.

Dopo una giornata in cui siamo stati sballottati da una parte all'altra, finalmente incontriamo un po' di umanità: chissà perchè, ma forse è la prima volta da quando siamo partiti che ci sentiamo realmente sicuri.

2 agosto

Ci svegliamo nelle accoglienti case palestinesi dopo la pace notturna, il canto del muezzin ed il canto del gallo. Colazioni abbondanti anche di amicizia e con un po' di commozione. Si va tutti in chiesa, tanti i ragazzi con la maglietta scout ed un sonno da crollare, ma abuna Firas tiene svegli tutti con voce tonante e l'impeto del condottiero combattente.

Nell'omelia ricorda le “P” del Patriarca: presenza, preghiera, pellegrinaggio. Dobbiamo essere cristiani qui in Terra Santa, non In America; qui nella chiesa Madre. Qui portiamo la croce con il sorriso e lavoriamo perchè giustizia e pace s'incontrino anche nella Terra Santa. All'uscita nel bel salone della parrocchia moderno ed accogliente riceviamo il saluto della comunità ad uno ad uno ci guardiamo negli occhi che parlano più delle nostre bocche.

Sotto il sole battente si passa a visitare la chiesa ortodossa: una delle più antiche di Palestina con iscrizioni in aramaico e croce greca.

Via verso il primo incontro ravvicinato con il tipo d'insediamento israeliano che si sta riproducendo senza sosta dentro al territorio dell'autorità palestinese. Attraversiamo il villaggio quieto, verde nei giardini di case di buona fattura, si cammina su una strada asfaltata larga ed incoraggiante per chi volesse andare a Ramallah, magari a portarci la frutta. Poi s'interrompe in mezzo agli oliveti di fronte alla colonia di Bet Arieh, sorta dall'82: prima arrivano le roulottes, poi diventano case, poi sorgono le recinzioni a proteggere l'illegalità, poi arrivano i soldati a fare la stessa funzione.

Oltre le recinzioni che tagliano gli oliveti di Aboud ci sono cancelli : si aprono una volta all'anno per due giorni, il tempo concesso ai legittimi proprietari per raccogliere le olive, se non ce la fai, peggio per te. Un pick up blu della sicurezza passa su una strada sterrata sopra di noi: siamo stati visti.

Torniamo da Abuna Firas e dai suoi ragazzi che ci hanno preparato riso alle mandorle, pollo e birra fresca con un grappolo d'uva per finire. Già nella benedizione c'è il senso della sua missione di prete: dire la verità tutta quanta, proteggere le vittime, agire con giustizia e carità .

Al termine del pranzo abbiamo avuto la prova della straordinaria apertura della sua azione di denuncia. E' arrivato fino al la Camera dei Rappresentanti degli USA, ha coinvolto il Vaticano, ha fatto paura ad Israele. Perchè? Per aver detto che Israele ruba l'acqua e la terra ai palestinesi ed averlo dimostrato.

Recentemente gli è stato consigliato di stare un po' zitto, ma non sembra il tipo da riuscirci. Ci offre un'impressionante serie di dati sulla progressiva sottrazione di territorio ai palestinesi, tanto che alla fine delle diverse misure di occupazione israeliana, giustificate come “sicurezza”, la quarta religione della Palestina dice Firas scherzando, ci sarà solo un 54% della terra dei palestinesi per i palestinesi. Che fare? Non stancarsi di dire la verità, informare perchè il mondo non sa, l'America non sa, l'Italia sa poco; occorre dare la notizia, non confezionare la notizia.

E' difficile entrare in contatto con movimenti israeliani per la pace, perchè in Israele comanda l'esercito, mentre il governo è sempre un fantoccio.E' difficile parlare con gli israeliani, si passa subito per collaboratori. Per dire che anche i palestinesi devono fare passi avanti, anzitutto nell'unità: la loro divisione ha permesso il massacro di Gaza. Ma non ci sono in giro leader, neppure in campo palestinese.

A Qalqilia si entra senza controllo ed è un fatto eccezionale. Ma anche Suad, la vigorosa palestinese che ci farà da guida, è un incontro di eccezionale valore per competenza e passione.

Ci accoglie nel centro di primo soccorso sanitario voluto da Barguti. Ci racconta di quanto sia difficile spostarsi fra una località e l'altra quando l'emergenza sanitaria preme e come sia ancora necessario garantire l'assistenza di medici volontari a fronte di notevoli carenze del sistema sanitario pubblico, cui pure i soldi non mancano.

Le lasciamo un po' dei nostri medicinali, per poi andare con lei a vedere da vicino il muro; anzi la prima tappa è un varco nel muro; quello che si apre al mattino per tre ore e fa passare circa 6000 palestinesi che da Qalqilia e dintorni vanno a lavorare con permesso speciale in Israele, tutti rigorosamente “in nero”.

Intervistiamo qualcuno di ritorno a fine giornata, finchè una guardia viene a dirci che se non ce ne andiamo, si bloccano i cancelli d'uscita per gli altri: ce ne andiamo per non coinvolgere operai stanchi rimasti in gabbia.

Altrove vediamo il muro sbarrare lo scarico delle acque piovane e provocare in inverno l'allagamento delle vicine scuole elementari . Lungo il muro arriviamo al cancello dei contadini, aperto per un paio d'ore al mattino con lo scopo di fingere di consentire ai legittimi proprietari, separati dai loro terreni, di poterli coltivare.

La forte Suad lì si commuove a vedere così espropriata e sfigurata la terra che fu di suo padre e dove lei bambina giocava fra gli alberi di arancio e limone. Già suo nonno aveva perso i terreni nel 1948 al di là della linea verde. E' la storia di tanti palestinesi che da proprietari sono diventati schiavi e devono comprare ciò che ieri vendevano.

Suad si batte il petto e trattiene un singhiozzo:”Non so cos'è la terra per Israele, ma so che per noi la terra sta dentro di noi, conosciamo gli alberi uno ad uno, come i nostri figli”. Questa commossa confidenza spiega in modo toccante quale sia l'offesa e l'umiliazione che troppi palestinesi hanno subito da parte di un'autorità che agisce illegalmente con la forza.

Suad ci saluta tutti con un bacio ed un abbraccio che è un modo per dirci grazie di essere stati lì, ci chiede solo di raccontarlo per far sapere ed aiutare così la giustizia, madre della pace, a fare qualche progresso, almeno nella mente di uomini informati.

(continua)

15 agosto 2009

Prossimi eventi


Siamo ancora in agosto, ma molti stanno già lavorando per preparare gli eventi della ripresa. Ne preannunciamo alcuni, che vi segnaleremo nuovamente al momento opportuno, quando ci saranno pervenute tutte le informazioni.

sabato 12 e domenica 13 settembre, nell'ambito del Festival della letteratura che si tiene a Mantova (il programma completo si può trovare sull'apposito sito) alcuni eventi riguarderanno la Palestina:
  • - sabato 12 settembre alle 11.15 presso il Palazzo della ragione "Fare la pace con i cattivi". È giusto trattare oggi con Hamas o con Hezbollah come in passato si è trattato in Irlanda con il Sinn Féin o in Spagna con l’ETA? Don Matteo Zuppi, assistente ecclesiastico della Comunità di Sant’Egidio e negoziatore delle paci in Mozambico e in Burundi ne parla con Paola Caridi, studiosa del mondo arabo e autrice di Hamas
  • - sabato 12 settembre alle 15.00 presso il Seminario vescovile "Palestina Israele 1997-2007 - Fotografie",la costruzione di una storia per immagini, una mole impressionante di documenti fotografici relativi all’occupazione
  • - domenica 13 settembre alle 10.15 al Teatro Ariston "La via che porta oltre al sionismo": Avraham Burg, deputato laburista e speaker della Knesset nelle passate legislature,viene intervistato da Meron Rapoport
  • - domenica 13 settembre alle 14.15 presso il Seminario Vescovile. "Architettura, potere, potenza". Prendendo in esame la militarizzazione del territorio di Gaza e della Cisgiordania perpetrata dal governo israeliano e le relative strategie eversive praticate dai palestinesi, Eyal Weizman, direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths College di Londra, teorizza la millenaria corrispondenza tra architettura e potere

domenica 13 settembre alle ore 11.00 al Festival del No Dal Molin, vi sarà Jeff Halper, urbanista israeliano e docente di antropologia all’Università Ben Gurion del Negev, che coordina il Comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi (Icahd).

martedì 15 settembre alle ore 21.00 presso l'Auditorium Canneti di Vicenza Don Nandino Capovilla, responsabile di Pax Christi, proporrà il tema: "La palestina: storia di ordinaria occupazione"

sabato 19 settembre alle ore 20, nel salone del Centro giovanile della Parrocchia di San Giuseppe lavoratore, Salaam Ragazzi dell'olivo organizzerà l'annuale Cena Palestinese. Vi aspettiamo!